Paradossi: il Senato spiega a Renzi come si fa una riforma
La settimana prossima, segnatamente martedì, in Senato comincerà la discussione in aula del nuovo regolamento. Il quale, senza sfigurare la Costituzione, mantiene molte delle (vane) promesse delle mega riforme costituzionali, ovvero sveltire i lavori parlamentari, rendendo più efficiente il Senato. Il paradosso – ha notato su Repubblica, con sublime perfidia, il professor Michele Ainis – è che “l’evento si consuma in Senato, proprio il luogo che la Grande riforma voleva abolire”. Del resto, se corrisponde a verità l’indiscrezione per cui il principe dei riformatori, Matteo Renzi, starebbe pensando di correre proprio per un seggio a Palazzo Madama, vuol dire che logica e coerenza non sono virtù più di tanto considerate.
Tornando al Regolamento, già il primo articolo in materia di Gruppi parlamentari, mette un argine al trasformismo (in questa legislatura un cambio di casacca ogni tre giorni) introducendo il principio in base al quale ciascun Gruppo (resta la soglia minima di dieci senatori, senza eccezioni salvo che per i senatori appartenenti alle minoranze linguistiche) “deve rappresentare un partito o movimento politico, anche risultante dall’aggregazione di più partiti o movimenti politici, che abbia presentato alle elezioni del Senato propri candidati con lo stesso contrassegno”. Si dimezzano i tempi di discussione (da dieci minuti a cinque), viene abolita la pausa tra mattina e pomeriggio. Non sarà più possibile “chiedere la verifica del numero legale prima dell’approvazione del processo verbale, in considerazione della distorsione a fini prevalentemente ostruzionistici che ha caratterizzato l’istituto nella prassi applicativa”. Il grosso del lavoro si sposta nelle commissioni ed è prevista una corsia preferenziale per le leggi d’iniziativa popolare. Una delle ragioni per cui, secondo i sostenitori della riforma Boschi, bisognava precipitarsi a votare Sì il 4 dicembre.
I LETTORI PIÙ ATTENTI ricorderanno che molti dei “professoroni” impegnati nella battaglia referendaria a favore del No, avevano detto e ripetuto che con un intelligente aggiornamento dei regolamenti parlamentari si sarebbero potute rendere le istituzioni più efficienti senza toccare minimamente gli equilibri disegnati dai costituenti: alle loro obiezioni era stato risposto con i consueti insulti. Ora, sul tavolo ci sono due problemi: il Regolamento è sottoposto al voto dell’aula, ed è augurabile che venga approvato, a prescindere dai bilancini delle alleanze elettorali. Così come è sperabile che accada anche nell’altro ramo del Parlamento. Non solo per i benefici che le procedure più snelle in sé porterebbero, ma anche per levare una volta per tutte argomenti agli adepti della setta riformista: una religione che non ha colore politico, un tic che ha colpito tutti i principali schieramenti nella nostra recente storia politica. Anche perché, ancora Ainis, “la Costituzione non è affatto colpevole della crisi che attraversa il Parlamento”. Eppure è stata a lungo il capro espiatorio dell’inettitudine della classe politica, con continui tentativi di revisione puntualmente bocciati dal popolo. A questo proposito, a un anno dalla sventata manomissione della Carta, possiamo solo sperare che la batosta del 4 dicembre abbia convinto i politici a dedicarsi ad altro. E che, ma qui forse dalle speranze si passa ai sogni, nella prossima legislatura il Parlamento sappia riconquistare l’onore del suo ruolo di rappresentante dei cittadini.