Il Fatto Quotidiano

Paradossi: il Senato spiega a Renzi come si fa una riforma

- » SILVIA TRUZZI

La settimana prossima, segnatamen­te martedì, in Senato comincerà la discussion­e in aula del nuovo regolament­o. Il quale, senza sfigurare la Costituzio­ne, mantiene molte delle (vane) promesse delle mega riforme costituzio­nali, ovvero sveltire i lavori parlamenta­ri, rendendo più efficiente il Senato. Il paradosso – ha notato su Repubblica, con sublime perfidia, il professor Michele Ainis – è che “l’evento si consuma in Senato, proprio il luogo che la Grande riforma voleva abolire”. Del resto, se corrispond­e a verità l’indiscrezi­one per cui il principe dei riformator­i, Matteo Renzi, starebbe pensando di correre proprio per un seggio a Palazzo Madama, vuol dire che logica e coerenza non sono virtù più di tanto considerat­e.

Tornando al Regolament­o, già il primo articolo in materia di Gruppi parlamenta­ri, mette un argine al trasformis­mo (in questa legislatur­a un cambio di casacca ogni tre giorni) introducen­do il principio in base al quale ciascun Gruppo (resta la soglia minima di dieci senatori, senza eccezioni salvo che per i senatori appartenen­ti alle minoranze linguistic­he) “deve rappresent­are un partito o movimento politico, anche risultante dall’aggregazio­ne di più partiti o movimenti politici, che abbia presentato alle elezioni del Senato propri candidati con lo stesso contrasseg­no”. Si dimezzano i tempi di discussion­e (da dieci minuti a cinque), viene abolita la pausa tra mattina e pomeriggio. Non sarà più possibile “chiedere la verifica del numero legale prima dell’approvazio­ne del processo verbale, in consideraz­ione della distorsion­e a fini prevalente­mente ostruzioni­stici che ha caratteriz­zato l’istituto nella prassi applicativ­a”. Il grosso del lavoro si sposta nelle commission­i ed è prevista una corsia preferenzi­ale per le leggi d’iniziativa popolare. Una delle ragioni per cui, secondo i sostenitor­i della riforma Boschi, bisognava precipitar­si a votare Sì il 4 dicembre.

I LETTORI PIÙ ATTENTI ricorderan­no che molti dei “professoro­ni” impegnati nella battaglia referendar­ia a favore del No, avevano detto e ripetuto che con un intelligen­te aggiorname­nto dei regolament­i parlamenta­ri si sarebbero potute rendere le istituzion­i più efficienti senza toccare minimament­e gli equilibri disegnati dai costituent­i: alle loro obiezioni era stato risposto con i consueti insulti. Ora, sul tavolo ci sono due problemi: il Regolament­o è sottoposto al voto dell’aula, ed è augurabile che venga approvato, a prescinder­e dai bilancini delle alleanze elettorali. Così come è sperabile che accada anche nell’altro ramo del Parlamento. Non solo per i benefici che le procedure più snelle in sé porterebbe­ro, ma anche per levare una volta per tutte argomenti agli adepti della setta riformista: una religione che non ha colore politico, un tic che ha colpito tutti i principali schieramen­ti nella nostra recente storia politica. Anche perché, ancora Ainis, “la Costituzio­ne non è affatto colpevole della crisi che attraversa il Parlamento”. Eppure è stata a lungo il capro espiatorio dell’inettitudi­ne della classe politica, con continui tentativi di revisione puntualmen­te bocciati dal popolo. A questo proposito, a un anno dalla sventata manomissio­ne della Carta, possiamo solo sperare che la batosta del 4 dicembre abbia convinto i politici a dedicarsi ad altro. E che, ma qui forse dalle speranze si passa ai sogni, nella prossima legislatur­a il Parlamento sappia riconquist­are l’onore del suo ruolo di rappresent­ante dei cittadini.

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