Dimenticate l’Isis: il testimone del jihad alle brigate Al-Quds
La polveriera I miliziani della Striscia di Gaza pronti a diventare i nuovi paladini dei palestinesi
Invece di assumere un atteggiamento più prudente e meno avventurista, Donald Trump procede con l’andatura di un bulldozer nel fragilissimo ed esplosivo scenario medio orientale: “È tempo di riconoscere ufficialmente Gerusalemme come la capitale d’Israele”. Non lo sfiora che tale mossa possa aumentare l’instabilità di una regione, compattando per esempio i fronti – oggi divisi – dei combattenti islamici, offrendo su di un piatto d’argento l’alibi per ricominciare la lotta contro i “Crociati” e i loro alleati israeliani.
MA DAVVERO Trump sottovaluta questo inquietante scenario? Il 25 settembre è stato lapidario quando ha dichiarato che vuole riconoscere Gerusalemme come “capitale indivisa dello Stato di Israele”. Trump non si è consultato con nessuno, irritando le cancellerie europee e mettendo in subbuglio il mondo arabo. Tant’è che le ambasciate Usa in Medio Oriente sono state messe in stato d’allerta. Però Trump ha anche detto di voler rilanciare il tribolatissimo negoziato di pace tra palestinesi ed israeliani. A fine novembre gli ha fatto eco Mahmoud Abbas (Abu Mazen) presidente dell’Autorità palestinese: siamo pronti alla pace, se Trump ci aiuta, vogliamo arrivare ad avere Israele e Palestina che vivono in pace e in sicurezza, uno accanto all’altra. Il problema, ha detto Abu Mazen, è che Benjamin Netanyahu non ritiene più possibile la soluzione di due Stati...
Dunque, Trump ha lanciato il guanto della sfida. Ma la sfida è ancora lungi dall’essere attuata. Dire: sposto l’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme è un conto, realizzare il trasloco un altro. Passeranno mesi, forse più di un anno perché l’am b as c i at a venga costruita, messa in si- curezza e diventi operativa. Per il momento, c’è l’ordine di Trump al Dipartimento di Stato di cercare il luogo più adatto ove insediare la sede diplomatica.
Intanto, si sta montando un clima sempre più esasperato. Che rischia di compromettere la riconciliazione inter-palestinese delle ultime settimane (a dire il vero, più dialettica che concreta) tra Autorità Palestinese e Hamas, con il jihad islamico in Palestina sempre più riluttante a deporre le armi.
QUESTO MOVIMENTO, vicino all’Iran, sarebbe favorevole al ravvicinamento tra Hamas e Al-Fatah. Ma Trump, sostiene Hamas, “ha aperto le porte dell ’ inferno, riconoscendo Gerusalemme come capitale di Israele” (e Gaza è di nuovo in fermento).
È un momento critico: come non tener conto dell’avvertimento di Putin, “sostengo il diritto palestinese ad avere Gerusalemme come capitale”? Mosca sfida Washington. Mentre Israele paventa una sorta di alleanza delle varie componenti – spesso fero- cemente rivali – del jihad islamico, a cominciare da al Qaeda che si è sempre fermamente opposta a qualsivoglia processo politico con “l’occupante” israeliano, simbolizzato dagli accordi di Oslo del 1993. E forse potrebbe rientrare in gioco l’Isis, sfruttando la “provincia del Sinai” in cui opera il gruppo (in crescita) jihadista egiziano Ansar Beit al-Maqdis, responsabile dell’attentato alla moschea sufi di Bird al-Abed che è costato la vita a oltre 300 persone.
Il Califfato ha spesso condannato l’impotenza dell’Autorità Palestinese nel fermare l’estensione delle colonie israeliane in Palestina. Ma nella striscia di Gaza il jihad sta svolgendo un ruolo di mediazione tra Fatah e Hamas, forte dei suoi 10 mila militanti inquadrati nelle Brigate AlQuds e dei 20 mila nelle Brigate Al-Qassam, l’ala militare di Hamas. Intanto, Egitto e Giordania condannano la decisione Usa. Un puzzle dalle dimensioni sempre più inopinate. E imprevedibili, purtroppo. Il vento del deserto soffia sabbia. E guerra.