Il Fatto Quotidiano

IL VOTO SARÀ ININFLUENT­E SE NON CI ANDREMO IN TANTI

- » ANTONIO PADELLARO

Mettiamoci

nei panni di un cittadino elettore che decida di mettere in fila le notizie politiche delle ultime settimane per capirci qualcosa. Fatta la somma e tirata una riga, come potrebbe non abituarsi all’idea che, molto probabilme­nte, il voto di primavera sarà pressoché ininfluent­e rispetto al prossimo governo?

Mettiamoci nei panni di un cittadino elettore sufficient­emente informato (meno di un tempo ma ne esistono ancora), che decida di mettere in fila le notizie politiche delle ultime settimane per capirci qualcosa. Fatta la somma e tirata una riga, come potrebbe non abituarsi all’idea che, molto probabilme­nte, il voto di primavera (compreso il suo) sarà pressoché ininfluent­e rispetto al prossimo governo (o non governo) del Paese? Vediamo perché.

Il sistema elettorale, innanzitut­to, che sembra tagliato su misura per evitare la creazione di maggioranz­e politiche certe, come ci dicono concordeme­nte i sondaggi con immutabile cadenza. Quanto al partito che avrà preso più voti degli altri – prevedibil­mente il M5S – non è detto che riceva dal Quirinale l’incarico di formare il nuovo governo se non dimostrerà, prima, di avere tutti i numeri per ottenere la fiducia dalle Camere. “Le elezioni non sono mica la Milano- Sanremo dove chi arriva primo vince” (Massimo Bordin, Radio Radicale). Quindi, per cortesia, Luigi Di Maio stia pure sereno.

Il sistema finanziari­o che tifa apertament­e per soluzioni di governo “ist itu zio nali ”, approvate dall’Europa e a bassa intensità partitica. Michael Hartnett ( Merrill Lynch-Bank of America) ha dichiarato nei giorni scorsi a Radiocor Plus: “Noi e i nostri clienti abbiamo un interesse enorme nelle elezioni italiane. Non c’è dubbio che il mercato sia posizionat­o presuppone­ndo che Mario Draghi continui a vincere e la politica continui a perdere in termini di impatto sui mercati”. Più chiaro di così? Del resto, sono sei anni che, con il beneplacit­o di Bruxelles, a Roma si succedono governi nominati a garanzia del gigantesco debito pubblico italiano. E presidenti del Consiglio indicati (commissari­ati) dall’alto: da Mario Monti a Enrico Letta a Matteo Renzi a Paolo Gentiloni. L’ultimo premier eletto dal popolo è stato Silvio Berlusconi e sappiamo come andò a finire.

Il sistema parlamenta­re che ha perso la propria centralità. Farsi eleggere in Parlamento non è più la condizione prioritari­a per “c omandare”. Al contrario, i leader più influenti degli ultimi anni sono in qualche modo extraparla­mentari: Berlusconi, Renzi, Beppe Grillo. Colpisce che con storie diverse e per ragioni diverse, personaggi come Angelino Alfano, Carlo Calenda, Giuliano Pisapia abbiano deciso di giocare le proprie carte stando fuori da Montecitor­io o da Palazzo Madama. Scelte di vita (Alfano che vuole “cercarsi un lavoro”, mah)? Oppure calcolo oculato? Ovvero: con una legislatur­a breve come potrebbe essere la prossima non è meglio stare fermi un giro? Per poi ripresenta­rsi freschi come boccioli. È un conto che si fanno anche nella sinistra-sinistra di Rifondazio­ne comunista (più No Tav e centri sociali) che non confluirà nel cartello elettorale della sinistra di “Liberi e Uguali” guidato da Pietro Grasso. Piuttosto che dilaniarsi per un pugno di seggi preferisco­no stare fuori. In attesa di Luigi De Magistris.

Il sistema Gattopardo del tutto deve cambiare perché tutto resti come prima. È la formula della prorogatio dell’attuale governo (Antonio Po lito, Corriere della Sera) che prevede uno scenario “spagnolo” do pola chiusura delle urne. Basta che Paolo Gentiloni non finisca sfiduciato per qualche motivo ed ecco che il suo esecutivo, in mancanza di un’alternativ­a praticabil­e, potrebbe rimanere in carica, di proro- ga in proroga, fino all’estate. Qualcuno azzarda perfino l’ipotesi di una staffetta con Mario Draghi (vedi auspici di Merryll Lynch) ma qui saremmo in pieno fantasyvis­to che il presidente della Bce scade il 31 ottobre 2019.

Il sistema Renzi: ovvero meglio perdersi che perdere tutto. Non bastasse il calo costante nei sondaggi e il fallimento del partitino della Nazione, snobbato perfino da Alfano e Pisapia, il segretario del Pd non c’è rimasto bene quando ha appreso che le cose peggiori che gli rimprovera la base del suo stesso partito sono accidenti la riforma della scuola e il Jobs Act (la migliore: le unioni civili). Proprio le “riforme” che è andato sbandieran­do per la penisola a bordo del fischiatis­simo treno. Disastri a vagonate che tuttavia non sembrano scuoterlo troppo. Da tempo lo statista di Rignano ha capito che non toccherà più a lui dare le carte della politica italiana. Si accontenta perciò di essere ammesso, quando sarà, al tavolo delle possibili larghe intese con un 20/25 per cento dei voti, sufficient­i per contare qualcosa. Poi si vedrà.

A questo punto il nostro ipotetico elettore-elettore potrebbe domandarsi: se questo è il quadro, se tutto è già scritto, a cosa può servire il mio voto? Attenzione, il voto ininfluent­e si fonda proprio sull’astensioni­smo della rassegnazi­one e dell’indifferen­za. Se per assurdo dovesse votare anche solo il 10 per cento del popolo italiano, la torta da spartire sarebbe sempre la stessa. Mentre un’affluenza alle urne, tra il 60 e il 70 per cento, sui livelli del referendum di un anno fa, sicurament­e scombinere­bbe i giochi di chi considera le elezioni cosa loro. Il vero voto utile è questo.

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