IL VOTO SARÀ ININFLUENTE SE NON CI ANDREMO IN TANTI
Mettiamoci
nei panni di un cittadino elettore che decida di mettere in fila le notizie politiche delle ultime settimane per capirci qualcosa. Fatta la somma e tirata una riga, come potrebbe non abituarsi all’idea che, molto probabilmente, il voto di primavera sarà pressoché ininfluente rispetto al prossimo governo?
Mettiamoci nei panni di un cittadino elettore sufficientemente informato (meno di un tempo ma ne esistono ancora), che decida di mettere in fila le notizie politiche delle ultime settimane per capirci qualcosa. Fatta la somma e tirata una riga, come potrebbe non abituarsi all’idea che, molto probabilmente, il voto di primavera (compreso il suo) sarà pressoché ininfluente rispetto al prossimo governo (o non governo) del Paese? Vediamo perché.
Il sistema elettorale, innanzitutto, che sembra tagliato su misura per evitare la creazione di maggioranze politiche certe, come ci dicono concordemente i sondaggi con immutabile cadenza. Quanto al partito che avrà preso più voti degli altri – prevedibilmente il M5S – non è detto che riceva dal Quirinale l’incarico di formare il nuovo governo se non dimostrerà, prima, di avere tutti i numeri per ottenere la fiducia dalle Camere. “Le elezioni non sono mica la Milano- Sanremo dove chi arriva primo vince” (Massimo Bordin, Radio Radicale). Quindi, per cortesia, Luigi Di Maio stia pure sereno.
Il sistema finanziario che tifa apertamente per soluzioni di governo “ist itu zio nali ”, approvate dall’Europa e a bassa intensità partitica. Michael Hartnett ( Merrill Lynch-Bank of America) ha dichiarato nei giorni scorsi a Radiocor Plus: “Noi e i nostri clienti abbiamo un interesse enorme nelle elezioni italiane. Non c’è dubbio che il mercato sia posizionato presupponendo che Mario Draghi continui a vincere e la politica continui a perdere in termini di impatto sui mercati”. Più chiaro di così? Del resto, sono sei anni che, con il beneplacito di Bruxelles, a Roma si succedono governi nominati a garanzia del gigantesco debito pubblico italiano. E presidenti del Consiglio indicati (commissariati) dall’alto: da Mario Monti a Enrico Letta a Matteo Renzi a Paolo Gentiloni. L’ultimo premier eletto dal popolo è stato Silvio Berlusconi e sappiamo come andò a finire.
Il sistema parlamentare che ha perso la propria centralità. Farsi eleggere in Parlamento non è più la condizione prioritaria per “c omandare”. Al contrario, i leader più influenti degli ultimi anni sono in qualche modo extraparlamentari: Berlusconi, Renzi, Beppe Grillo. Colpisce che con storie diverse e per ragioni diverse, personaggi come Angelino Alfano, Carlo Calenda, Giuliano Pisapia abbiano deciso di giocare le proprie carte stando fuori da Montecitorio o da Palazzo Madama. Scelte di vita (Alfano che vuole “cercarsi un lavoro”, mah)? Oppure calcolo oculato? Ovvero: con una legislatura breve come potrebbe essere la prossima non è meglio stare fermi un giro? Per poi ripresentarsi freschi come boccioli. È un conto che si fanno anche nella sinistra-sinistra di Rifondazione comunista (più No Tav e centri sociali) che non confluirà nel cartello elettorale della sinistra di “Liberi e Uguali” guidato da Pietro Grasso. Piuttosto che dilaniarsi per un pugno di seggi preferiscono stare fuori. In attesa di Luigi De Magistris.
Il sistema Gattopardo del tutto deve cambiare perché tutto resti come prima. È la formula della prorogatio dell’attuale governo (Antonio Po lito, Corriere della Sera) che prevede uno scenario “spagnolo” do pola chiusura delle urne. Basta che Paolo Gentiloni non finisca sfiduciato per qualche motivo ed ecco che il suo esecutivo, in mancanza di un’alternativa praticabile, potrebbe rimanere in carica, di proro- ga in proroga, fino all’estate. Qualcuno azzarda perfino l’ipotesi di una staffetta con Mario Draghi (vedi auspici di Merryll Lynch) ma qui saremmo in pieno fantasyvisto che il presidente della Bce scade il 31 ottobre 2019.
Il sistema Renzi: ovvero meglio perdersi che perdere tutto. Non bastasse il calo costante nei sondaggi e il fallimento del partitino della Nazione, snobbato perfino da Alfano e Pisapia, il segretario del Pd non c’è rimasto bene quando ha appreso che le cose peggiori che gli rimprovera la base del suo stesso partito sono accidenti la riforma della scuola e il Jobs Act (la migliore: le unioni civili). Proprio le “riforme” che è andato sbandierando per la penisola a bordo del fischiatissimo treno. Disastri a vagonate che tuttavia non sembrano scuoterlo troppo. Da tempo lo statista di Rignano ha capito che non toccherà più a lui dare le carte della politica italiana. Si accontenta perciò di essere ammesso, quando sarà, al tavolo delle possibili larghe intese con un 20/25 per cento dei voti, sufficienti per contare qualcosa. Poi si vedrà.
A questo punto il nostro ipotetico elettore-elettore potrebbe domandarsi: se questo è il quadro, se tutto è già scritto, a cosa può servire il mio voto? Attenzione, il voto ininfluente si fonda proprio sull’astensionismo della rassegnazione e dell’indifferenza. Se per assurdo dovesse votare anche solo il 10 per cento del popolo italiano, la torta da spartire sarebbe sempre la stessa. Mentre un’affluenza alle urne, tra il 60 e il 70 per cento, sui livelli del referendum di un anno fa, sicuramente scombinerebbe i giochi di chi considera le elezioni cosa loro. Il vero voto utile è questo.