La Scala, il format rivoluzione e la ghigliottina di Carlo Conti
Ormai la rivoluzione fa così poca paura che si può metterla in scena con successo, si possono mietere applausi e share. La rivoluzione della rivoluzione ha conquistato addirittura la Scala grazie ad Andrea Chénier: nella Prima di Sant’Ambrogio il poeta girondino non è stato giustiziato in prima serata su Rai1 solo perché l’opera è iniziata troppo presto, ma ha comunque raccolto un 11% e più di due milioni di spettatori. The winner is Chénier, ma dunque nemmeno la rivoluzione è più quella di un tempo. Il primo a evocarla tra i palchi scaligeri fu Dino Buzzati in uno dei suoi capolavori. Più che la rivoluzione in sé, era la paura della rivoluzione: qualcosa di lugubre e impalpabile gelava la migliore borghesia meneghina, costretta ad asserragliarsi nel foyer. Poi, dalla paura metafisica di Buzzati si è passati a quella concreta della contestazione post Sessantotto che aveva individuato nella Prima della Scala un simbolo del privilegio e della cultura dominante. Altri tempi. Oggi come al- lora il rosso è stato il colore dominante, ma non quello delle bandiere, quello delle misedelle signore. Oggi la Scala è ancora un teatro noto nel mondo ma non più un simbolo, anche perché non si vede cosa ci sia da simboleggiare. Non il privilegio di classe tantomeno la cultura dominante (in Italia nulla è meno dominante della cultura). La rivoluzione non è più quella di un tempo: adesso è un format, la ghigliottina di Chénier se la batte con quella dell’Eredità di Carlo Conti.