ERA MEGLIOQUANDO SI STAVA PRIMA
sembra essere il leitmotiv delle dichiarazioni mondiali alla provocazione di Trump che scombina e sposta gli equilibri della questione mediorientale. Se anche il Papa usa l’espressione “status quo” per caldeggiare un approccio meno muscolare e folgorante sull’annoso e spinoso problema palestinese e farlo tornare nel sicuro e immoto alveo dell’inazione che ha contrassegnato questi anni, allora forse si è persa l’occasione per approfittare della rischiosa iniziativa americana per proporre un nuovo (seppur ennesimo) inizio delle trattative di pace tra israeliani e Autorità nazionale palestinese. Obama ha di fatto lasciato perdere la questione, intanto c’erano l’Egitto, la Siria, la Libia, l’Isis e da continuare (con altro piglio e altri metodi rispetto al predecessore Bush) la guerra al terrorismo. Dunque lo “status quo” ora invocato da più parti cela una forma di disinteresse delle autorità politiche e morali mondiali che in questi anni non hanno cambiato per nulla l’approccio diplomatico-umanitario che è impantanato in un dialogo tra sordi. Nel frattempo il peso di Israele è aumentato mentre quello palestinese si è ridotto anche per via dell’interesse delle monarchie del Golfo di “comprarne” la causa non certo per risolverla una volta per tutte. Così l’elefante americano entrato nella polverosa cristalleria mediorientale ha avuto gioco facile a infrangere lo “status quo” che faceva riposare tranquille le coscienze mondiali.