Il Sultano che vuole salvare l’Islam dai crociati
Il mondo arabo lo considera l’unico leader che alza la voce con l’Occidente a sua difesa
In
occidente spesso lo chiamano, con tono sprezzante, il “Sultano” ma all’Impero Ottomano Erdogan guarda davvero. Sebbene non tenti, naturalmente, di calcarne le orme ha sempre cercato ispirazione in quei suoi illustri antenati, capaci di dare vita ad una civiltà straordinaria, capace di dominare il mondo per secoli e (per lunga parte della loro storia) con una lungimiranza ben diversa da quella di molti leader di oggi.
Pur non essendo un sultano, Erdogan ha spesso cercato di diventare un punto di riferimento per tutto il mondo musulmano. E, sebbene con alterne fortune, in diverse oc- casioni c’è perfino riuscito. Nei giorni delle primavere arabe, in molti Paesi mediorientali diversi sondaggi lo davano come il leader mondiale più popolare. La Tuchia veniva, allora, anche indicata da più parti come il più importante esempio di via islamica alla democrazia. Poi la guerra in Siria, il caos in Libia, il colpo di stato in Egitto contro Ahmed Morsi hanno cambiato tutto e la stella di Erdogan nel mondo arabo si è appannata (senza mai spegnersi del tutto, per la verità)
Ma oggi, con la decisione di Trump di spostare l’ambasciata americana a Gerusalemme, riconoscendo così la Al Quds degli arabi (terza città santa più importante per l’Islam) capitale di Israele, Erdogan torna a vestire i panni del protettore dei musulmani. Secondo la tr ad iz io ne islamica l’arcangelo Gabriele fece salire il profeta Muhammad sul destriero alato Buraq che lo condusse, nottetempo, dalla Mecca a Gerusalemme, prima di intraprendere l’ascesa attraverso i 7 cieli. Qui il secondo Califfo, Omar, costruì una prima moschea, dove oggi sorge la Cupola della Roc- cia. E Gerusalemme, da quando Selim, padre del celebre Solimano, vi fece il suo ingresso nel dicembre del 1516 è stata, per secoli, sotto la protezione dei sultani ottomani.
QUANDO TRUMP ha annunciato la sua decisione, Erdogan ha preso subito la palla al balzo. “Il riconoscimento di Gerusalemme capitale di Israele - ha replicato immediatamente - è una linea rossa per i musulmani”, minacciando una rottura delle relazioni diplo- matiche con Israele. Relazioni ricucite a fatica nell’estate del 2016, dopo sei anni di profonde tensioni seguite al raid dello Stato ebraico contro la nave Mavi Marmara, nel quale morirono 10 attivisti turchi.
E tutti in Turchia ricordano ancora bene Erdogan, al World Economic Forum di Davos nel 2009, che tuonava “One minute! One minute!” replicando al tentativo del moderatore del panel di discussione su Gaza di togliergli la parola. “Quando si tratta di uccidere, sapete bene come farlo” aveva proseguito rivolto al leader israeliano Simon Peres seduto al suo fianco. Per l’opinione pubblica di molti Paesi arabi divenne un eroe.
La stessa cosa accade oggi, con i palestinesi che avevano mal digerito la ripresa delle relazioni tra Turchia e Israele ma che ora guardano a lui come all’unico leader che si muove per difenderli. E in tutto il mondo arabo, i cui capi tentennano mentre le popolazioni dei vari Paesi sono furibonde e unite contro la decisione di Trump, la stella di Erdogan torna a splendere. Domani si incontrerà con Putin ad Ankara, proprio per parlare di questo.
Per mercoledì ha invitato ad Istanbul i 57 rappresentanti de ll’Organizzazione della cooperazione islamica per un summit straordinario. Anche in Turchia, intanto, continuano le manifestazioni contro la scelta di Trump. “Una decisione che contraddice la legge internazionale” dice Erdogan che, di questa battaglia, sa già di essere uno dei vincitori.
La sfida di Davos
Il presidente nel 2009 disse a Simon Peres: “Quando si tratta di uccidere, sapete farlo”