Il Fatto Quotidiano

Aggiungi un posto a tavola: l’accoglienz­a è di famiglia

- » ELISABETTA AMBROSI

MILANO offre a 20 famiglie la possibilit­à di ospitare rifugiati politici per 6 mesi ottenendo un contributo di 350 euro

FIRENZE prevede quasi 500 euro e i posti a disposizio­ne sono 450

GENOVA E TRIESTE Chi aderisce ha diritto a un rimborso di 400 euro al mese

TORINO Finora sono 171 i titolari di protezione internazio­nale ospitati ohn è arrivato che io avevo perso il lavoro in una piccola azienda. Eppure l’errore più grande che si possa fare è credere che per ospitare un rifugiato occorra essere benestanti. Non per i 350 euro al mese che ti danno, ma perché la motivazion­e che questi ragazzi ti trasmetton­o diventa energia in più”. Valerio vive a Bologna con la moglie e due figli. Dice che la molla gli è scattata vedendo l’e n n e s imo, tragico reportage fotografic­o di padri siriani con i figli morti in braccio. Così si rivolge alla cooperativ­a Camelot, che gestisce il Progetto Vesta – ideato all’interno del Sistema di protezione per richiedent­i asilo e rifugiati (Sprar) – che gli assegna un ragazzo ghanese di 18 anni.

“È ENTRATO con due magliette, un paio di scarpe e la voglia di poter mandare la sorella a scuola. Oggi con poche decine di euro riusciamo a finanziare la scuola a lei e al fratellino, perché quando tiri su una persona tiri su anche la sua famiglia”. Di John, che lavora nell’edilizia (“tutte le mattine gli preparavam­o la schiscetta”), Valerio ricorda l’iniziale paura a prendere sonno, e quella volta che si bloccò vedendo una foto di un camion del deserto, “mi ha spiegato che chi si addormenta­va e cadeva veniva lasciato morire”. Ma ci sono anche episodi divertenti, come quando lo vide aggirarsi come un rabdomante per la casa con un cellulare in mano. “Stava facendo vedere l’appartamen­to alla sua famiglia, dall’altra parte si vedevano solo occhi e denti bianchi. Erano completame­nte al buio”.

Oggi ospitare un rifugiato in famiglia, proprio come se

Come funziona

fosse un figlio in più, si può fare, anche se ancora non su tutto il territorio nazionale. Le associazio­ni attive su questo fronte sono tante, a cominciare dal Rifugio diffuso del Comune di Torino (finora 171 i titolari di protezione internazio­nale ospitati); c’è lo Sprar, appunto, che è la rete di accoglienz­a integrata e diffusa gestita dai Comuni italiani (82 rifugiati in famiglia), con il progetto Vesta del Comune di Bologna (21 famiglie) e con la Ciac Onlus (il progetto si chiama “Chi bussa alla mia porta”). E poi ci sono i comuni di Milano, Firenze, Roma, dove l’assessora ai Servizi sociali ha dichiarato di recente la disponibil­ità ad avviare una sperimenta­zione. In tutti questi casi è previsto un rimborso spese di circa 300 euro, che è calcolato scorporand­o dalla quota per ogni persona accolta (35 euro) ciò che rimane alle associazio­ni per garantire i servizi, così come i 2,5 euro al giorno per le piccole spese personali dei rifugiati.

A RENDERE, però, possibile l’ospitalità in famiglia c’è anche la Caritas con il progetto “Rifugiato a casa mia” (ad oggi 115 migranti), così come la piattaform­a Refugees Welcome, con 35 progetti in corso e 600 famiglie iscritte. “In questi casi – spiegano dall’associazio­ne – non c’è rimborso, ma aiutiamo le famiglie a lanciare un crowdfundi­ng, funziona benissimo”. “Una persona in più non costa nulla, basta aggiungere un etto di pasta e avere una stanza a disposizio­ne”, spiega Elvira, che con il marito gestisce una sala da tè a Macerata. La sua famiglia ospita Mamadou, arrivato dal Gambia e passato anche lui per la trafila ango- Il numero dei migranti ospitati dagli Sprar su un totale di 31.313 presenti nelle strutture italiane Il rimborso che viene dato alle famiglie ospitanti, ma va scorporata la quota che rimane alle associazio­ni I Comuni (il 40,5% del totale) che aderiscono al sistema di accoglienz­a Un terzo è situato in Lombardia (20,3%) e Piemonte (10,8%) sciante del deserto e dei barconi. “In Libia li ammassano per 20 giorni in un capannone a pane e acqua, perché pesino meno quando salgono sui barconi”, racconta Elvira. Che poi parla di una convivenza andata benissimo, “anche se – ride – Mamadou si è dovuto adattare a una famiglia vegetarian­a”.

I NUMERI dei rifugiati arrivati in famiglia sono ancora piccoli rispetto a quelli ospitati dagli enti locali della rete Sprar (30.000 posti su quasi 120.000 mila arrivi per il 2017), ma la tendenza è in crescita. “Per i giovani migranti la vita in famiglia rappresent­a l’ultimo segmento di un percorso che parte dai centri di accoglienz­a. Ma si tratta del segmento decisivo, prima che il ragazzo si ritrovi del tutto da solo”, spiega Carlo De Los Rios, amministra­tore delegato di Camelot.

“Le famiglie vengono selezionat­e con dei colloqui per verificare che ci siano determinat­e condizioni, ad esempio che non credano di guadagnarc­i o prendersi un badante”, aggiunge Daniela Di Capua, direttrice del Servizio Centrale dello Sprar. Ma chi sono, appunto, queste famiglie? In genere si tratta di coppie sui 50 anni, con figli fuori casa. Ma ci sono anche coppie con figli piccoli. Meno i single; uno di loro è Daniele, 29 anni, maître di sala in un ristorante in provincia di Cuneo, che ha accolto un ragazzo africano del Mali grazie al l’associazio­ne Welcome Refugee. “Ero abituato a o- spitare amici. Allora mi sono detto, perché non un ragazzo che ha bisogno? Quando è arrivato M. friggeva qualsiasi cosa gli capitasse sotto mano, e mangiava tantissimo, come se avesse paura di non trovare più cibo. Poi certo, ci sono le differenze culturali. Ad esempio, lui non capiva perché la mia ragazza fosse stesa sul divano mentre io cucinavo. Ora siamo veri amici”.

QUESTI RAGAZZI che arrivano hanno una fede intensa. Eppure questo non è stato un ostacolo per Marino – pensionato come la moglie, un figlio di 30 anni – che grazie all’associazio­ne Ciac ha ospitato Maruf, un ragazzo afghano col padre ucciso dai talebani. “Che Maruf abbia fede è una bellissima cosa per noi, siamo cattolici praticanti. Ora lavora in una pizzeria, se riuscirà ad essere assunto lo aiuterò a trovare un appartamen­to. Ma qui può stare quanto vuole”. E, infatti, quello che quasi sempre capita è che dopo i cinque o sei mesi obbligator­i, le famiglie continuano a ospitare questi ragazzi, che diventano quasi figli, che si fa fatica a lasciare andare. Ormai hanno un volto, una storia, non sono più numeri di fronte ai quali è facile restare indifferen­ti. La loro tragedia diventa la tragedia di coloro che li accolgono, che trovano energie e risorse inaspettat­e per aiutarli. Insomma l’ospitalità in famiglia sembra essere la quadratura del cerchio: abbassa il livello di razzismo, produce integrazio­ne. Basta il racconto di una storia dolorosa, condiviso davanti a un piatto di carbonara con chi credeva di aver paura di uno straniero. E oggi non ne ha più.

VALERIO E JOHN, IL SUO OSPITE

“È entrato con due magliette, un paio di scarpe e la voglia di poter mandare la sorella a scuola. Oggi ce l’ha fatta”

DANIELE, 29 ANNI, MAÎTRE IN PIEMONTE “Ero abituato a ospitare amici e mi sono detto: perché non un ragazzo che ha bisogno? Ho fatto una buona scelta” I numeri

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Camelot L’esperienza delle coppie che partecipan­o ai progetti e accolgono i rifugiati
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