Molestie, il puritanesimo Usa ora punta al bersaglio Trump
ADurante la campagna per le presidenziali Usa 2016 emerge una registrazione audio di Donald Trump che parla con Billy Bush di “Access Hollywood” e si lascia andare a commenti sessisti su alcune donne, spiegando le sue aggressive tattiche di seduzione verso donne sposate che fanno resistenza ggiungendo simboli a simboli, bisogna partire dalla constatazione che il senatore democratico Al Franken, che ha appena annunciato le dimissioni dal seggio a Washington a seguito delle accuse mosse da una mezza dozzina di donne per molestie sessuali (da lui negate), col suo gesto ha chiuso il cerchio dell’emergenza nazionale che ha investito l’America. Perché Franken, prima d’essere una personalità politica, per anni è stato un popolare uomo di spettacolo, un celebrato satirista, autore di libri e articoli che mettevano alla berlina con un’ironia tagliente i malcostumi dei connazionali, occupando anche una posizione di rilievo nel “Saturday Night Live”, il comedy show più amato d’America, in cui vanno in scena le travolgenti campagne denigratorie contro coloro che hanno scovato il modo di far ridere il pubblico e, forse, anche di farlo piangere.
A SORPRESA, nel 2006 Franken si buttò nell’arena politica, allora agitatissima dall’avvento di Barack Obama e con un margine minimo si aggiudicò un seggio che confermerà sei anni più tardi, distinguendosi per acume e lasciando perfino trapelare qualche vaga intenzione verso le presidenziali 2020. Il kaputt alla sua escalation politica è stato ora pronunciato dalle donne del suo partito che, dopo qualche esitazione, gli hanno formalmente chiesto un passo indietro, pagando le indiscrezioni che da tempo lo circondavano e abbandonandolo all’inesorabile meccanismo del #MeToo, la campagna di rivalsa femminile che, tramite la rete, ha investito la società Usa e in particolare gli ambienti nei quali le logiche del potere incoraggiano sfruttamenti indebiti: politica, spettacolo, comunicazione. Sono i campi di battaglia di questa rivolta nata spontanea e presto evolutasi in catartico rituale collettivo: togliere il conforto della prescrizione ai porci d’America - se non tutti, tanti.
Il fatale moltiplicarsi dei casi oramai non fa più notizia e le
Il caso
LE PAROLE DI DONALD
liste di “caduti” finiscono nelle pagine interne dei quotidiani, dove i rei di colpe sessuali - più o meno confessi - si succedono come grani del rosario: ecco Russell Simmons, ex-star della rap music con i Run DMC e poi mogul dell’industria musicale. Ecco Israel Horovitz, gran maestro del teatro americano. Ecco due giganti dei talk show televisivi come Charlie Rose e Matt Lauer, e questo solo dragando gli ultimissimi giorni. Sempre la stessa storia: altre donne che trovano il coraggio, il desiderio e le motivazioni per dire ciò che hanno taciuto. E i chiamati in causa che, ognuno a modo proprio, ciascuno con le proprie piagnucolanti scuse, s’incolonnano verso il portale dell’infamia, ritirandosi nel misterioso limbo dell’espiazione e dei danni in solido da corrispondere.
Eppure, l’aspetto più complesso della questione sta in quello che è l’effetto seconda- rio di questa campagna di “pulizia etica”: il riuso in chiave politica. Ovvero: chi non aderisce, alzi pubblicamente la mano. I repubblicani, tanto per cominciare, e uno in particolare. Il pesce più grosso: Donald Trump. Perché sparando su uno come Franken, è possibile che la pallottola magica triangoli nel cuore della carriera del presidente in carica, certo non abbastanza al di sopra delle parti per sottrarsi ad accuse già in passato contestategli, dalle quali si è difeso ammettendo le sue debolezze, ma che ora potrebbero trasformarsi nel plotone d’esecuzione della sua permanenza nello Studio Ovale. Franken esce di scena sibilando orgogliose parole d’occasione (“É ironico che me ne vada mentre alla presidenza c’è un uomo che s’è vantato delle proprie aggressioni sessuali davanti a un registratore”). Liquidando lui, i democratici pagano parte del conto lasciato aperto da Bill Clinton e dalle sue prodezze da inquilino della Casa Bianca e intanto già provano a spedire a casa anche John Conyers Jr., il veterano assoluto della Camera dei Rappresentanti, bruciato dalle accuse di una donna di cui ha comprato il silenzio per tacere sulle sue avances. Il gioco dei democratici è chiaro: scommettere sulla “differenza” con gli esitanti repubblicani che non mettono sotto accusa nemmeno Roy Moore, il candidato per il senato dell’Alabama, finanziato dai dollari del partito a dispetto del manipolo di donne che raccontano d’essere state insidiate da lui in giovane età (un altro repubblicano della Camera, Trent Franks dell’Arizona, si appena autoeliminato per le rivelazioni di due signore del suo staff, mentre Blake Farenthold del Texas prova a tener duro, respingendo le accuse di molestie dell’ex-ufficio stampa).
É una mappa politica co- sparsa di lapidi, una marcia d’avvicinamento all’obbiettivo: scalzare Trump da una presidenza che minaccia di aggiudicarsi anche per il secondo mandato. Renderlo moralmente ineleggibile, proprio come i colleghi oggi finiti alla gogna.
TUTTO DIPENDERÀ dalla temperatura etica della nazione: se l’atmosfera sarà della resa dei conti, per Trump non ci sarà scampo. Come un sovrano avviato alla ghigliottina, dovrà suo malgrado dichiararsi d’accordo col popolo che lo condanna e che troverebbe requie nel descriverlo come residuo di un’epoca conclusa. Un colpo di spugna, all’insegna di un nuovo puritanesimo. Ci sarà chi griderà alla liberazione dai peccati. E chi alla resurrezione di un “politicamente corretto”, sotto le cui insegne in America si sono consumate grandi cose e grandi errori.
É ironico che me ne vada mentre alla presidenza c’è un uomo che s’è vantato delle proprie aggressioni