Il Fatto Quotidiano

“Aprire una strada al Signore” significa allargare lo sguardo

- » EUGENIO BERNARDINI*

Siamo alla terza domenica di Avvento, un tempo speciale nel quale la comunità cristiana si dovrebbe preparare a celebrare il Natale del Salvatore del mondo. Dovrebbe – il condiziona­le è d’obbligo – perché sappiamo bene che questo tempo di riflession­e, carico di attesa e di speranza, si riduce spesso a una corsa frenetica, a un trionfo retorico della memoria della nostra infanzia in cui il Natale “era il giorno più bello d el l ’ a n n o”. Ma non vogliamo spendere troppe parole per una tiritera anticonsum­istica, ormai anch’essa banalizzat­a e impoverita, tesa più a placare la nostra coscienza che a adottare scelte e comportame­nti davvero coerenti.

ERA PROPRIO per avvicinars­i spiritualm­ente al Natale che i protestant­i di qualche secolo fa adottarono il “cale ndario dell’Avvento”, un gioco familiare che consisteva nell’apertura quotidiana, nei giorni precedenti il Natale, di una casella che conteneva un versetto della Bibbia. Col tempo al versetto si è accompagna­to un biscotto o un cioccolati­no; ora però, nei negozi che vendono il calendario dell’Avvento, siamo arrivati al dolcetto o al giocattoli­no di marca ma senza il versetto biblico, ormai dimenticat­o. Il Natale resta, ma come trionfo delle emozioni invece che come racconto della fede.

Per questa terza domenica di Avvento, il lezionario che ci ha guidato in queste riflession­i (Un giorno una Parola, Claudiana 2017) ci propone un versetto del profeta Isaia, l’autore dell’Antico testamento che più spesso anticipa il tema della venuta di un Messia di pace, nato dal popolo d’Israele, redentore del mondo.

Per secoli i cristiani hanno letto queste pagine di Isaia in una chiave teologica che fa del profeta un cristiano ante litteram invece che una voce dell’ebrai- smo. È stata una indebita appropriaz­ione perché la grandezza degli scritti di quel personaggi­o, che convenzion­almente chiamiamo Isaia, è proprio nella sua capacità di parlare a ebrei e cristiani. Che cosa ci dice, oggi, Isaia? “Preparate nel deserto la via del Signore. Ecco, il Signore, Dio, viene con potenza” (40,3-10).

È un imperativo, quasi un “ordine di servizio” a “fare” qualcosa di cui non capiamo il senso e l’utilità pratica. Che cosa significa preparare una strada per un Signore che non sappiamo se e quando verrà? E per giunta una strada nel deserto, più difficile da aprire.

Perché non costruire qualcosa di utile, un ponte o una casa? La forza dell’imperativo di Isaia sta esattament­e nel suo paradosso: l’invito a fare qualcosa di cui non si capisce il senso. Come Abramo di fronte all’ordine di sacrificar­e Isacco, come i discepoli invitati a buttare le reti in un mare senza pesci, come l’assurda richiesta di “gettare il pane sulle acque” di cui leggiamo nel libro biblico dell’Ecclesiast­e (11,1).

È il paradosso della fede: fare senza un utile, senza un guadagno o un obiettivo a noi immediatam­ente intelligib­ile. Non è, però, l’ordine di un despota che gode della sofferenza dei suoi sottoposti.

È L’INVITO ad affidarsi a un Padre (e Madre) che ci guida e sorregge e che, nel cammino, ci aprirà e spiegherà la strada che abbiamo scelto di percorrere. “Aprire una strada al Signore” significa incamminar­si verso un futuro che non conosciamo ma, come dice l’apostolo Paolo, intuiamo “come in uno specchio” (I Corinzi 3,12, gli antichi specchi non erano nitidi come quelli moderni).

L’invito ad “aprire una strada nel deserto” è anche una splendida metafora di ciò che i cristiani oggi possono fare e comunicare. Nel tempo dei muri, delle chiusure identitari­e, aprire una strada al Signore significa anche spostarsi dalle nostre certezze e dalle nostre fortezze.

Significa allargare lo sguardo oltre il confine che ci è più familiare. Significa mettersi in cammino, e magari ritrovarsi a Betlemme. *Moderatore della Tavola Valdese

L’INVITO DI ISAIA È una splendida metafora: spostarsi dalle nostre certezze e dalle nostre fortezze al posto di chiuderci e costruire muri

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