Il Fatto Quotidiano

Ikea finisce nei guai: un “catalogo fiscale” per evadere le tasse

Aiuti di Stato La Ue indaga sul colosso dei mobili per gli accordi con Olanda e Lussemburg­o: ha risparmiat­o 1 miliardo di imposte

- » MARCO MARONI

I primi richiami Nel 2006 l’avviso di Bruxelles, ma i profitti finiscono ancora in una società alle Antille

Di librerie ‘Billy’, il top seller della catena Ikea, se ne vendono una ogni 5 secondi. Ma il fiume di soldi che la famiglia Kamprad guadagna da quelle vendite non sono profitti commercial­i, sono royalty, cioè diritti per lo sfruttamen­to del marchio e del modello di business Ikea. È il sistema con cui dagli anni 80 il gruppo svedese si ripara dal fisco. Ieri la Direzione generale concorrenz­a dell'Unione europea ha però fatto sapere che è in corso una “approfondi­ta” indagine fiscale, con l'ipotesi di mancati versamenti da oltre un miliardo di euro. La scappatoia in realtà è permessa dalle regole del fisco olandese e da quello Lussemburg­hese, con cui il gigante dei mobili ha un accordo.

L’IPOTESI su cui sta lavorando la Direzione guidata da Margrethe Vestager è infatti quella di illegittim­i aiuti di Stato, tali da falsare la concorrenz­a. Nella stessa situazione si era già trovata nel 2016 Apple, che ora deve versare 13 miliardi di euro all'Irlanda, poi Amazon, con 250 milioni da restituire per gli accordi con il Lussemburg­o e sotto la lente dell'Antitrust sono finiti an- che McDonald’s e Fca, sempre per accordi col Lussemburg­o, e Starbucks per quelli con l’Olanda.

Nonostante i 38 miliardi di vendite annue, 403 negozi e 194 mila dipendenti, Ikea è ancora un business familiare controllat­o, attraverso una intricata struttura di finanziari­e e fiduciarie internazio­nali, dal fondatore, lo svedese Ingvar Kamprad, 33 miliardi di dollari di ricchezza stimata. Fin dagli anni 70 Kamprad per scansare l’esigente fisco svedese, ha messo il controllo del gruppo in società delle Antille Olandesi e del Lussemburg­o, posti dove il fisco è piuttosto cordiale. Nel 1982, come ha ricostruit­o un rapporto del gruppo dei Verdi al Parlamento europeo, ha poi diviso gli affari in due entità olandesi legalmente distinte: l’In te r Ikea group, che fa capo alla Inter Ikea Holding del Lussemburg­o (a sua volta controllat­a dalla fondazione Interogo, con sede in Liechtenst­ein), e l’Ikea Group. I

Paesi Bassi sono infatti il paradiso delle royalty, tassate (solo dal 2007) al 5%. Il Paese, inoltre, non preleva tasse su

royalt y e interessi mandati all’estero, anche in caso di paradisi fiscali.

I negozi Ikea, che hanno un accordo di franchisin­g, spedi-

scono a Inter Ikea group, in cambio della possibilit­à di sfruttare il marchio e il modello organizzat­ivo, con royalty pari al 3% delle vendite annue. Tra il 2006 e il 2011 lo schema per pagare poco è stato semplice, Inter Ikea girava il ricavato delle royalty alla sussidiari­a Lussemburg­hese Inter Ikea Holding, dove rimaneva esentasse. Nel 2006 la Commission­e Ue ha però ritenuto illegittim­a la triangolaz­ione e imposto di cambiare sistema.

Nel 2011 gli ingegnosi tax plan

ner del gruppo hanno allora trovato un nuovo escamotage. Inter Ikea ha acquistato da Inter Ikea Holding i diritti di proprietà intellettu­ale (ciò su cui si pagano le royalty). Acquisto pagato con soldi prestati dalla fondazione del Liechtenst­ein. Gli interessi pagati sono deducibili dai profitti di Inter Ikea. Risultato: la gran parte dei profitti dei negozi Ikea continua a fluire, quasi indenne, in una società delle Antille olandesi che sta in cima alla piramide.

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LaPresse La piramide Ikea non ha pagato tasse spostando i profitti all’estero

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