I fondi per la ricerca di base aiutano i baroni
I finanziamenti del governo penalizzano chi è più creativo e ha un profilo internazionale
Come
può un singolo esercizio di valutazione della ricerca uccidere la residua credibilità dell’intero processo? Prendiamo il caso del Ffabr, finanziamento alla ricerca di base bandito in estate dall’Agenzia per la Valutazione della Ricerca in ottemperanza alla legge di Bilancio 2016, e giunto testè a conclusione. Sorvoliamo sulla scarsità delle risorse allocate (45 milioni in tutto, 3.000 euro per ogni ricercatore, briciole), sui vincoli imposti (non si poteva fare domanda se si avevano altri finanziamenti in corso), e anche sull’esiguità dei beneficiari (il 75% dei ricercatori e appena il 25% dei professori associati). Fattori che già di per sé avrebbero sconsigliato dal procedere.
Guardiamo qui solo il merito, ovvero i criteri. Le aree scientifiche si dividono in bi- bliometriche (sottoposte a una valutazione automatica e quantitativa basata su indici di citazioni e di prestigio, essi stessi controversi: qui tutto si è tradotto in un complicato algoritmo) e non bibliometriche (quelle storicamente più delicate, in cui si annida una motivata resistenza a procedure spesso assurde: comprendono le aree umanisti- che, giuridiche e sociologiche, e abbracciano oltre un quarto delle 17.300 domande presentate). Per queste ultime aree, si è scelto di rinunciare del tutto alla valutazione di merito della ricerca (a far leggere e valutare da pari i libri e gli articoli, come accade per la Valutazione quadriennale della ricerca) e si è voluto far presto: 10 punti per ogni libro (uno solo, presentabile, se negli ultimi 5 anni hai fatto 3 monografie peggio per te), 4 per ogni articolo su rivista di "fascia A” (una categoria di riviste selezionate, in cui mancano molte riviste internazionali e i baroni italiani hanno sgomitato per entrare), 7 per i brevetti, 1 per tutto il resto.
TALE DECISIONEha avuto due stelle polari. Da un lato l'assassinio di una forma scientifica che nelle scienze umane è molto praticata, cioè quella dell’articolo in volume o capitolo di libro: una tipologia diffusa in tutta Europa e che corrisponde alla forma normale in cui sfociano i progetti internazionali in cui i ricercatori vengono sempre esortati a cimentarsi: un capitolo di 150 pagine per Brill (Leiden), o un articolo di 30 pagine per un libro di Cambridge University Press o di De Gruyter (Berlino), uscito dopo un duplice e severo referaggio, vale 1 misero punto, 5 paginette su una rivista italiota finita in “fascia A” per magheggi vari ne valgano 4. Non necessariamente il primo contributo è “migliore” del secondo (per saperlo bisogna leggerli!), ma è insensato ritenere a priori l’opposto.
D’altro canto c’è l’uccisione della soglia minima dell’interdisciplinarietà, se è vero che le riviste “di fascia A” vengono calcolate solo all’interno di ciascun settore scien- tifico-disciplinare: chi dunque, da filologo classico, pubblica articoli su riviste di assoluto prestigio che per qualche ragione sono in “fascia A” per letteratura greca, per archeologia o per filologia umanistica, produce robaccia.
IL TRIONFO dell’algoritmo fine a se stesso, della valutazione quantitativa, della compartimentazione settoriale, dei baronati delle riviste, della miope chiusura dinanzi alle forme che assume la ricerca a livello internazionale: non si poteva far meglio. Non è chiaro se chi emana queste direttive, magari andando per tentativi (a ogni nuovo “concorso” i criteri cambiano), si renda conto del potere di condizionamento che esercita anche a livello dei singoli atenei e della funzione distorsiva che così si arroga su modi e forme della ricerca.