Uno stop al trasformismo parlamentare
“Se il leader, che è anche quello che decide la selezione delle candidature (…), fa strame della democrazia di partito, che strumenti ha l’opposizione interna per contrastarlo e far valere le sue ragioni?” (da “I dilettanti” di Pino Pisicchio – Guerini e Associati, 2015)
Arrivato al punto più basso della sua credibilità e autorevolezza, il sistema politico dimostra che a volte – se vuole – può riuscire in extremis ad autocorreggersi. Con un sorprendente soprassalto bipartisan di dignità, nei giorni scorsi il Senato ha approvato una riforma del suo Regolamento che segna una svolta contro l’indegno fenomeno del trasformismo parlamentare. L’accordo, sottoscritto da Pd, Forza Italia, Lega e Movimento 5 Stelle, vieterà dalla prossima legislatura ai senatori di cambiare gruppo o casacca, introducendo inoltre una serie di norme per rendere più veloce l’iter delle leggi.
Non ci voleva poi tanto per mettere fine a uno sconcio che ha raggiunto il suo massimo storico, contribuendo così ad alimentare la sfiducia e la disaffezione dei cittadini. Sono stati finora più di cinquecento in questa legislatura i “voltagabbana” passati a un gruppo diverso da quello in cui erano stati eletti. Un “fenomeno di transumanza”, come l’ha definito il pluriparlamentare Pino Pisicchio nel pamphlet citato all’inizio, che ha stabilito un record negativo senza precedenti.
GIÀ ESPROPRIATI del loro diritto di scegliere i propri rappresentanti, in forza di una legge elettorale come il cosiddetto “Porcellum” che ha prodotto un Parlamento di “nominati”, purtroppo per il futuro prossimo gli elettori italiani non possono nutrire grandi speranze che il “Rosatellum” modifichi sostanzialmente la situazione. E bisognerà, perciò, mettere mano quanto prima a una nuova legge elettorale. Ma ora la riforma del Regolamento del Senato, avviata dal capogruppo Pd Luigi Zanda nella scorsa legislatura, ha trovato nell’ex ministro leghista Roberto Calderoli un insospettabile regista, con la partecipazione straordinaria dei 5stelle.
Certo, questo non basta per restituire al ceto politico la credibilità perduta sotto gli effetti congiunti dell’opportunismo e del tatticismo, dei conflitti d’interessi, del malaffare e della corruzione. E tuttavia, può essere il segnale di un’inversione di tendenza, di una maggiore consapevolezza o magari di una resipiscenza collettiva, per tentare di recuperare un po’ di fiducia presso i cittadini. Se anche la Camera dei deputati decidesse prima o poi di seguire l’esempio, non sarebbe male: servirebbe a ridurre le distanze fra il “Paese reale” e il cosiddetto “Paese legale” che – per le verità – è diventato nel tempo sempre meno legale.
All’origine di questa epidemia di trasformismo, c’è senz’altro la fine delle grandi ideologie del Novecento che – nel bene e nel male – aggregavano, convogliavano e organizzavano ideali, speranze, utopie. Poi s’è aggiunta la “crisi della politica”, intesa non più come servizio alla collettività, bensì come professione o mestiere. E successivamente, la “personalizzazione dei partiti” che non risparmia nessuno, dalla destra al centro e alla sinistra, a cui – per la verità – non è estraneo neppure il M5S.
Nessuno può pensare, evidentemente, di tornare al modello dei vecchi partiti ideologici. Viviamo in una “società liquida”, come l’ha definita il sociologo polacco Zygmunt Bauman, nell’era della comunicazione istantanea e interattiva. È chiaro, quindi, che i canali di collegamento fra gli elettori e gli eletti devono essere più diretti e immediati. Ma il rapporto di fiducia resterà sempre un presupposto fondamentale per legittimare la delega di rappresentanza.