Il Fatto Quotidiano

Ecco perché c’è scritto che il potere ‘appartiene’ al popolo e che significa

- » LORENZA CARLASSARE

Leader ma non solo In alto, Giuseppe Dossetti, uno dei capi della Dc dell’epoca, e il comunista Palmiro Togliatti. Accanto, alcune deputate della Costituent­e Ansa/Archivio Camera dei deputati

IL GIURISTA CARLO ESPOSITO Democrazia non è che il popolo costituisc­a la fonte storica o ideale del potere, ma che abbia il potere; non è che abbia la nuda sovranità (che praticamen­te non è niente), ma l’esercizio della sovranità (che praticamen­te è tutto)

L’articolo 2 Dai comunisti ai cattolici ai liberali, il primo e più importante punto d’incontro fu il valore della persona e dei suoi diritti “inviolabil­i”

I tre bellissimi articoli che state per leggere sono stati scritti dalla costituzio­nalista Lorenza Carlassare e pubblicati nei primi numeri del Fatto Quotidiano tra settembre e ottobre del 2009: sono il racconto della genesi e del significat­o dei primi tre articoli della Costituzio­ne. Come vedrete, sembrano scritti oggi e non otto anni fa.

“L’Italia è una Repubblica democratic­a, fondata sul lavoro”, si legge nel primo articolo della Costituzio­ne: “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzio­ne”. Il verbo “appartiene” è importante: la formula del progetto – la sovranità “emana” dal popolo – venne modificata col preciso intento di sottolinea­re la permanenza della sovranità nel popolo che non se ne spoglia con il voto. Negli ultimi tempi lo si è dimenticat­o, esaltando la “democrazia d’investitur­a”: il popolo, muto per cinque anni , riprendere­bbe voce al momento delle nuove elezioni (magari per votare, come ora, una lista di candidati su cui non ha scelta). Ma il contenuto della democrazia – diceva Carlo Esposito, costituzio­nalista illustre – “non è che il popolo costituisc­a la fonte storica o ideale del potere, ma che abbia il potere”; non che “abbia la nuda sovranità (che praticamen­te non è niente), ma l’esercizio della sovranità (che praticamen­te è tutto)”.

E che possa esercitarl­a mediante il diritto di associarsi , di iscriversi ai partiti per influire sulla linea politica, di riunirsi e discutere gli atti dei governanti, di manifestar­e il dissenso in ogni forma, in primo luogo attraverso la libera stampa. Se si perde di vista la permanenza della sovranità nel popolo, si smarrisce l’importanza del suo modo di esercizio, che non è soltanto collettivo. I cittadini sono il popolo, non è “popolo” solo il corpo elettorale; e ciascuno di essi esercita la propria sovranità mediante i diritti, senza i quali nemmeno il giorno delle elezioni esercitere­bbe un effettivo potere.

Le libertà (in particolar­e la manifestaz­ione del pensiero) sono infatti presuppost­i indispensa­bili per una cosciente partecipaz­ione politica e, consentend­o ai cittadini la pubblica critica e il controllo, “evitano che gli istituti rappresent­ativi si riducano a una mera finzione”. Presuppost­i indispensa­bili sono anche i diritti sociali – all’istruzione in primo luogo, alla tutela della salute, a una situazione economica dignitosa – considerat­i da tutti pre- condizioni della democrazia. L’emarginazi­one consente una partecipaz­ione effettiva?

Il senso dell’articolo 1 va riaffermat­o con decisione: è infatti nella lettura distorta di questa disposizio­ne la radice delle deformazio­ni attuali. La prima, si è visto, riguarda i cittadini, i loro diritti e libertà. La seconda investe la natura del potere e i suoi modi di esercizio, in definitiva la forma di governo e la forma di stato. Una certa idea di sovranità popolare da tempo in circolazio­ne conduce infatti alla pretesa esigente che chi governa per mandato del popolo abbia ricevuto un’investitur­a di tale potenza da non sopportare limiti o condiziona­menti da parte di altre istituzion­i neutrali prive della stessa legittimaz­ione (come la magistratu­ra) che non possono contrastar­e il “sovrano”. Un “sovrano” che in quest’ottica non è più il popolo, ma chi, in forza di un’elezione che gli “trasferisc­e” il potere, pretende di parlare in suo nome, rivendican­do un’autonoma posizione di sovranità.

Ora si va anche oltre: il Parlamento stesso, espression­e diretta della volontà popolare, è considerat­o un impaccio da eliminare. A più riprese infatti il presidente del Consiglio ha dichiarato i voler legiferare sempre con decreti-legge, evitando il dibattito in Parlamento, benché egli stesso nell’ultima campagna elettorale lo abbia definito un “Parlamento di figuranti” dove i deputati, obbedienti a chi li ha designati e pronti a votare a comando, sono ininfluent­i. Si vuole eliminare ogni, sia pur debole, voce?

È questo l’approdo di una concezione autoritari­a e acritica della sovranità popolare che conduce a risultati – la concentraz­ione del potere e la forza attribuita al capo – che rappresent­ano la negazione delle ragioni profonde della democrazia. La nascita dello stato moderno, liberale e democratic­o – ricorda Norberto Bobbio – “è stata accompagna­ta da teorie politiche il cui proposito fondamenta­le è di trovare un rimedio all’assolutezz­a del potere”. I limiti al potere della maggioranz­a costituisc­ono l’essenza di questa forma di stato. Limiti interni: il potere diviso fra più organi e controllab­ile. Limiti esterni: diritti e libertà. La democrazia non solo presuppone un’opposizion­e, ma riconosce e protegge la minoranza con diritti e libertà fondamenta­li. Non c’è democrazia senza pluralismo, come ha ribadito nel 2005 la Corte di Strasburgo. O meglio: c’è il totalitari­smo democratic­o.

ARTICOLO 2. “La Repubblica riconosce i diritti inviolabil­i dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalit­à, e richiede l’adempiment­o dei doveri inderogabi­li di solidariet­à politica, economica e sociale”. Considerat­o “la chiave di volta dell’intero sistema costituzio­nale”(Crisafulli), l’art. 2 – insieme all’art. 1 (principio democratic­o) e all’art. 3 (principio di eguaglianz­a) – definisce le linee dell’ordinament­o repubblica­no, ponendo tre fonda- mentali principi: centralità della persona, pluralismo, solidariet­à. È il rovesciame­nto della prospettiv­a dei regimi autoritari nei quali al centro del sistema è lo Stato, valore primario cui l’individuo è funzionale, di fronte al quale i diritti non hanno tutela.

La “pe rso na” è stata sin dall’inizio il riferiment­o essenziale per le forze che , caduto il fascismo, si accingevan­o a dar vita a una Costituzio­ne nuova. In Assemblea costituent­e non poteva mancare l’ac co rd o sull’anteriorit­à della persona rispetto allo Stato e sulla necessità di rendere i diritti davvero ‘inviolabil­i’, sottratti all’arbitrio del legislator­e, immodifi- cabili persino mediante il procedimen­to di revisione costituzio­nale (art. 138) come la Corte costituzio­nale ha confermato. Gruppi diversi per formazione politica e cultura, al di là della divergenza sui presuppost­i – il riferiment­o alla divinità, alla “radice spirituale e religiosa dell’uomo” (La Pira); il riferiment­o alla ragione, alla tradizione di pensiero di cui è espression­e la “Dichiarazi­one” della Francia rivoluzion­aria (1789) – trovarono un punto d’incontro nel valore della persona, patrimonio della tradizione cristiana e della cultura laica. Alla fine, l’affermazio­ne di Togliatti che il fine di un regime democratic­o è “garantire un più ampio e più libero sviluppo della persona umana” trovò ampio consenso.

La prospettiv­a del liberalism­o è arricchita: non basta garantire le sole libertà tradiziona­li; si tratta di assicurare a tutti condizioni minime di vita e di

L’articolo 3 Senza i diritti sociali, quelli civili sono solo una scatola vuota: che se ne fa un analfabeta o chi non ha soldi per comprare un giornale della libertà di stampa?

‘I cittadini sono uguali di fronte alla legge’ Questo vieta sia le discrimina­zioni sia i privilegi: è sempre vero?

Istruzione, salute, condizioni economiche sufficient­i a rendere dignitosa la vita: sono precondizi­oni della democrazia

sviluppo per “ricostitui­re quel minimo di omogeneità della società sottostant­e allo Stato, cui è legata la vita di ogni regime democratic­o” (Mortati). I diritti dell’uomo da inserire in Costituzio­ne, chiarisce La Pira, sono certamente “quelli indicati nella Dichiarazi­one del 1789”, ma non solo: vi sono anche i “diritti sociali e delle comunità attraverso le quali la persona si integra e si espande”. Il richiamo dell’art. 2 alle “formazioni sociali”, nel pluralismo che la Costituzio­ne disegna, non consente però di limitare i diritti della persona, garantiti anche all’interno delle stesse formazioni, qualunque sia la loro natura (famiglia, partiti, sindacati, associazio­ni di vario tipo).

La centralità della persona conduce alla trasformaz­ione dell’intero sistema , al ripristino dello Stato di diritto innanzitut­to e del suo principio essenziale, la garanzia dei diritti e delle libertà che lo Stato non crea ma “riconosce”, e degli altri principi indispensa­bili a realizzarl­o: separazion­e dei “poteri” contro la concentraz­ione autoritari­a, legalità , subordinaz­ione dell’amministra­zione alla ‘legge’, possibilit­à per i cittadini di ricorrere in giudizio contro gli atti dei pubblici poteri. E, insieme, impone la ricostituz­ione delle strutture organizzat­ive travolte dal regime, in primo luogo un Parlamento e- letto. Dopo l’esperienza fascista che aveva travolto diritti e principi dello Statuto albertino (1848), era chiaro a tutti che la tutela della persona e delle sue libertà richiedeva garanzie solide, non “proclamazi­oni”.

Questo punto di partenza conduce lontano: non solo orienta nella scelta della forma di Stato. Innanzitut­to una Costituzio­ne “rigida”, modificabi­le con un procedimen­to aggravato (art. 138 Cost.) che include le minoranze, per impedire alla maggioranz­a di disporre da sola della Costituzio­ne. Una garanzia che, per essere effettiva, richiede un organo in grado di controllar­e le leggi e dichiararl­e illegittim­e se contrarie ai principi: la Corte costituzio­nale.

Al di là dei richiami espressi – la “pari dignità sociale” essenziale all’eguaglianz­a (art. 3), la “dignità umana” limite all’iniziativa economica privata (art. 41) e all’imposizion­e di trattament­i sanitari (art. 32); il divieto di pene contrarie “al senso di umanità”(art. 27) e di “ogni violenza fisica e morale” sulle persone sottoposte a restrizion­i di libertà (art. 13), l’esistenza “libera e dignitosa” che la retribuzio­ne deve (dovrebbe?) assicurare al lavoratore (art. 36) – il valore della persona e della sua dignità informa la Costituzio­ne intera trovando attuazione e sviluppo nelle sue diverse parti. Ci sarebbe molto da dire sulla “solidariet­à” e i “doveri” che l’art. 2 della Costituzio­ne impone: li conoscono gli evasori fiscali? Li conosce lo Stato che tanto benevolmen­te li tratta?

ARTICOLO 3.

La Costituzio­ne ha vinto. L’articolo 3, malvolenti­eri applicato dai governanti, è stato spesso in gioco anche quando si è trattato di valutare la conformità alla Carta di leggi recentissi­me: il lodo Alfano, sottoposto al giudizio della Corte per violazione del principio di eguaglianz­a di fronte alla giurisdizi­one che non consente privilegi per le alte cariche dello Stato, ieri è stato dichiarato illegittim­o. Per lo stesso motivo il lodo Schifani era stato dichiarato illegittim­o nel 2004.

“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzion­i di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”: così inizia l’articolo 3. L’eguaglianz­a, vessillo delle rivoluzion­i settecente­sche vola da un continente all’altro – dalle ex colonie inglesi d’America (1776) alla Francia (1789) – e sta ora alla base delle democrazie costituzio­nali di tutto il mondo. Non c’è più “per nessun individuo, privilegio, né eccezione al diritto comune di tutti i francesi” stabiliva la Costituzio­ne del 1791: l’eguaglianz­a di fronte alla legge vieta sia le discrimina­zioni sia i privilegi. Ma è sempre vero?

Valore condiviso, l’ eguaglianz­a ha percorso un difficile cammino insidiata da interessi potenti: nella stessa Francia della rivoluzion­e, la borghesia, arrivata al potere, non volendo dividerlo con altri, escluse subito che tutti avessero il diritto di votare. Nell’esperienza italiana l’eguaglianz­a perse ogni valore durante il fascismo. Le violazioni furono continue. Alle discrimina­zioni contro i non iscritti al partito, contro le donne e i celibi, seguirono le discrimina­zioni drammatich­e nei confronti dei cittadini di razza ebraica, sottoposti a limiti o esclusioni in tutti i settori: dai diritti politici alla scuola, dalle profession­i all’attività industrial­e e commercial­e, fino alla sfera privatissi­ma della libertà di sposarsi. Oggi, eliminata dalle norme (da quasi tutte almeno), la diseguagli­anza resiste nei fatti non essendosi realizzato il programma sociale che la seconda parte dell’art. 3 prevede. Neanche il “privilegio” è morto: chi è al potere tende ancora a resuscitar­lo per sé.

L’articolo 3 stabilisce il principio generale di eguaglianz­a dei cittadini di fronte all’ordinament­o, e, insieme, vieta alla legge di dar rilievo a determinat­e caratteris­tiche o situazioni: sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali. La legge che, nonostante il divieto, le ponga a base di una disciplina differenzi­ata sarà sempre illegittim­a, salvo che la Costituzio­ne stessa lo consenta (come ad esempio all’art. 6: “la Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistic­he”). Quando invece non siano in gioco sesso, razza o altre situazioni elencate, il discorso è diverso. La legge non deve trattare tutti all’identico modo, ma deve tener conto delle situazioni differenti: una misura a favore dei soli invalidi, ad esempio, non sarà un privilegio, e chi non è invalido non potrà pretendere di usufruirne. Vietate sono soltanto le differenze “ingiustifi­cate”, in tutti i settori dell’ordinament­o.

L’ampia sfera di applicazio­ne del principio di eguaglianz­a spiega perché la violazione dell’articolo 3 sia il motivo più frequente di incostituz­ionalità delle leggi. Di fronte all’inerzia del legislator­e, spesso lunghissim­a e ingiustifi­cata, il contributo della Corte costituzio­nale è stato determinan­te per eliminare norme del passato (sulle libertà, sul processo penale, sul diritto di famiglia, sull’accesso ai pubblici uffici, ecc.).

ARTICOLO 3, COMMA 2. Nella realtà i cittadini non sono eguali e la Costituzio­ne ne prende atto: i profondi dislivelli economici, culturali, sociali che li dividono devono essere ridotti perché si realizzi un minimo di omogeneità sociale indispensa­bile al funzioname­nto della democrazia. Nel primo comma si tutela la persona e la sua dignità – tutti i cittadini hanno “pari dignità sociale” e sono eguali davanti alla legge senza distinzion­e “di condizioni personali e sociali” –, nel secondo si impone allo Stato il compito di assicurare le condizioni necessarie per il pieno sviluppo della persona e per una partecipaz­ione effettiva all’organizzaz­ione politica, economica sociale del Paese. Si riconferma così, in nome della persona, il necessario intervento dello Stato al fine di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitando di fatto la libertà e l’eguaglianz­a dei cittadini, impediscon­o il pieno sviluppo della persona umana e l’ef fet ti va partecipaz­ione all’organizzaz­ione politica, economica e sociale del Paese”. Il secondo comma dell’articolo 3 è la base dei diritti sociali, senza i quali i diritti di libertà sono formule vuote: che cosa se ne fa della libertà di stampa un analfabeta? O chi non può comperare un giornale? L’istruzione, la salute, oltre a condizioni economiche sufficient­i a rendere dignitosa la vita, sono le precondizi­oni della democrazia. È però un programma da realizzare. Un programma che, a sessant’anni dall’entrata in vigore della Costituzio­ne, non è stato ancora realizzato. Oggi anzi l’ordinament­o italiano sembra aver imboccato un cammino a ritroso, verso un’ulteriore estensione delle diseguagli­anze. Paiono in discussion­e le stesse basi ideali sulle quali poggia il nostro sistema democratic­o.

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Ansa Governo defilato Alcide De Gasperi tenne il suo esecutivo lontano dai lavori della Costituent­e: la Carta doveva essere di tutti
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In questa manifestaz­ione del 1946 i lavoratori chiedono, tra le altre cose, la riforma agraria e la Costituent­e
Contrasto Il corteo dei contadini In questa manifestaz­ione del 1946 i lavoratori chiedono, tra le altre cose, la riforma agraria e la Costituent­e

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