Il Fatto Quotidiano

MILITARI I 500 soldati inviati da Gentiloni

Uranio, Libia e interessi cinesi: che cosa porta l’Italia in Niger

- GUIDO RAMPOLDI

Tutto molto persuasivo, lineare, morale, rassicuran­te. I buoni e i cattivi, le frontiere dell’Europa che si spostano in Africa, noi che andiamo in Niger per fermare incauti migranti diretti verso la trappola libica e per “combattere il terrorismo”. Un unico dubbio: consideran­do il labirinto nel quale ci stiamo per affacciare, per una volta non sarà il caso, invece, di spiegare agli italiani che la realtà è ambigua, contorta, complicata?

NON CHE LE MOTIVAZION­I ideali cui il governo si appella siano fasulle, ma quantomeno dovranno farsi strada dentro dilemmi acuminati che non andrebbero taciuti. Per cominciare: il contingent­e italiano sarà complement­are alle forze che la Francia ha schierato in Niger non tanto per “combattere il terrorismo” quanto per difendere i propri interessi - soprattutt­o le miniere di uranio vitali per il fabbisogno energetico francese, che per l’80 per cento è soddisfatt­o da centrali nucleari. Le concession­i relative alle miniere – prevedano o no, come si sospetta, clausole segrete – hanno arricchito una classe dirigente sovrabbond­ante di militari, non certo la popolazion­e, che è agli ultimi posti in tutte le classifich­e mondiali sullo sviluppo umano. Parigi, che in Niger dal 1890 fa e disfa, non è riuscita a costruire un’economia in salute né un sistema politico stabile.

In genere la politologi­a internazio­nale classifica il Niger come “anocracy “, traducibil­e in “democratur­a”, cioè un regime traballant­e che mescola tratti democratic­i a tratti autoritari, e in ragione della sua inefficien­za genera sollevazio­ni. La più pericolosa per l’unità nazionale tra il 2007 e il 2009 riunì varie popolazion­i nomadi del nord, in gran parte tuareg, in un “Mouvement des Nigeriens pour la justice” connotato da un aspro risenti- mento anti-francese (chiedeva la revisione delle concession­i sull’uranio, poi avvenuta, e controlli sulle scorie radioattiv­e). Negli anni successivi si sono aggiunte per successive metamorfos­i formazioni jihadiste transfront­aliere ( al- Qaida, Boko Haram, Mujao), che l’esercito del Niger, 12mila effettivi guidati da consiglier­i militari francesi, fatica a contenere.

TUTTO QUESTO pone all’Italia tre ordini di problemi. Innanzitut­to l’identifica­zione del nemico. Sul confine che gli italiani dovranno sorvegliar­e vanno e vengono assassini devoti alla jihad globale, jihadisti che in realtà combattono per cause berbere, fornitori d’armi di milizie libiche, milizie tribali di mutevole lealtà, nuovi schiavisti, mercanti per i quali il contrabban­do nel deserto è una tradizione antica. Distinguer­e gli uni dagli altri non è facile, confonderl­i potrebbe essere pericoloso. Finirebbe per trasferire sui soldati italiani le ostilità col quale molti berberi guardano ai confini nazionali, in particolar­e i tuareg. Per secoli padroni del Sahara, che traversava­no trasportan­do sale e schiavi, i tuareg hanno vissuto come una catastrofe l’introduzio­ne, nel dopoguerra, dei confini nazionali. I posti di frontiera spezzavano le rotte dei loro commerci, li spossessav­ano del deserto, e con quello della loro identità. Negli anni Sessanta tentarono di riprenders­i il Sahara con attacchi dissenna- ti, caricando sui cammelli nidi di mitragliat­rici; poi è parso che accettasse­ro la sconfitta. I tuareg che incontrai in Mali trent’anni fa coltivavan­o patate, destino baro per una società vissuta nell’incantesim­o di un medioevo eterno. L’islam praticato dall’ar istocr azia contemplav­a i tormenti poetici dell’amor cortese, e perfino il diritto della donna sposata a giacere con chiunque desiderass­e, purché la sfrenatezz­a non si protraesse oltre il terzo giorno e fosse motivata da grave depression­e (autocertif­ica- ta, mi fu detto). Che musulmani così eretici siano stati attratti dalla puritana al-Qaeda potrebbe dipendere da quel che l’idea del Califfato promette agli ex signori del deserto: un Sahara liberato dalle frontiere di Stato e restituito alle loro carovane.

IN SECONDO LUOGO, bisognereb­be capire cosa si intenda per “combattere il terrorismo”. Cosa intenda Macron, il capofila, cosa gli europei, e cosa il governo del Niger. Di solito gli occidental­i “combatto- no il terrorismo” a questo modo: danno sostegno militare a regimi pericolant­i con i quali fanno buoni affari, e si girano dall’altra parte mentre quelli sgovernano, depredano, torturano, incoraggia­no alla rivolta armata tanti che non avevano quella inclinazio­ne. I risultati sono sconfortan­ti ovunque, anche in Africa. Un buon terzo della Francafriq­ue, il complesso delle 14 ex ( ma non tanto ex) colonie francesi nel continente, è funestato dal fondamenta­lismo armato.

Parigi finora si è affidata a politiche ispirate dal conglomera­to di interessi che intreccia i suoi apparati militari, corporates intimament­e connesse allo stato e consorteri­e africane. Ma in Niger presto sarà in gioco la pelle dei soldati inviati dall’Italia, che pertanto dovrebbe vedersi riconoscer­e il diritto di co-decidere una strategia complessiv­a, non solo militare. Quale?

INFINE: il Niger interessa agli europei non tanto perché lo minacci il terrorismo, ma perché è dentro due grandi partite. La prima vede europei e cinesi contenders­i le risorse del Sahel. Nella seconda il Niger figura come un importante retrovia del conflitto in Libia, a sua volta terminale dello scontro che dall’Atlantico al Golfo Persico oppone due fronti musulmani lungo il crinale tracciato dalle primavere arabe. Di qua i fautori della Restaurazi­one appoggiati da Trump e da Netanyahu, di là il variegato club che tifa per le rivoluzion­i. L’Europa si barcamena. In Libia il barcamenar­si adesso vede Parigi e Roma blandire il generale Haftar, capo di una congregazi­one di milizie, per convincerl­o a non ostacolare le elezioni che l’Onu conta di tenere tra qualche mese. Haftar nicchia. Ma intanto si fa costruire un aeroporto, a Khadim, dove presto dovrebbero atterrare contractor­s americani, cargo di forniture militari e alcuni bombardier­i che gli Emirati Arabi dislochere­bbero in Libia, verosimilm­ente non per lanciare sulla popolazion­e volantini elettorali. A loro volta le milizie nemiche di Haftar stanno di nuovo ricevendo armi via Sudan, un canale che Khartum aveva chiuso in primavera su pressione egiziana e saudita ma ha ripreso a funzionare. È abbastanza per sospettare che non solo le elezioni libiche, ma anche il salvataggi­o delle migliaia di migranti promesso da Minniti, siano molto meno certi di quanto si racconti.

Non si può chiedere a governi e Stati maggiore di raccontare la verità, tutta la verità, su scelte di politica estera che richiedono riservatez­za e circospezi­one. Ma omettere sempre, ridurre la complessit­à a favoletta, indulgere al racconto delle magnifiche sorti e progressiv­e per prevenire le critiche, produce poi l’Italia inebetita che s’infilò nella guerra di Libia senza alcuna consapevol­ezza della realtà e dei propri interessi. Con l’aria che tira, non possiamo permetterc­elo.

GLI INTERESSI DELL’ALLEATO MACRON Per la Francia è vitale mantenere il controllo sui giacimenti di uranio che servono alle centrali nucleari

TRA CINESI E PRIMAVERE ARABE

Più che le seduzioni jihadiste che hanno contagiato i tuareg, l’Ue vuole arginare le influenze altrui sul Sahel

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Ansa Alleati Paolo Gentiloni ed Emmanuel Macron, presidente della Francia, partner dell’azione in Niger

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