L’apparente equivoco per cui, se il Pd cala, Gentiloni invece sale
L’uomo che piace a Silvio e Fidél Prosecutore del renzismo, ma senza la sua carica nevrotica: addio “Partito della Nazione”, c’è “il premier della Nazione”
Paolo Gentiloni cresce e il Pd cala nel giudizio degli italiani. Ci si chiede perché. La domanda è pertinente se si considera che Gentiloni è a tutti gli effetti “figlio politico” di Matteo Renzi, dal quale, nella sostanza, non si è mai smarcato. Fu Renzi a indicarlo a Mattarella per Palazzo Chigi dopo le sue dimissioni originate dalla sconfitta referendaria. Fu Renzi, come egli stesso non ha mancato di rimarcare non proprio elegantemente, a recuperarlo in quota sua nelle elezioni del 2013, pena l’esclusione dal Parlamento. Ed è reciprocamente Gentiloni che, nonostante qualche distinguo come nel caso della conferma del governatore di Bankitalia, ha più e più volte ribadito la stretta continuità del suo governo con quello presieduto da Renzi.
EPPURE LA CHIAVE di tale apparente contraddizione è abbastanza agevole: il Paese, a lungo nevrotizzato da leadership autocratiche ed esuberanti quali quelle di Berlusconi e Renzi, oggi mostra di apprezzare figure più... rilassanti e meno divisive. Non voglio esagerare: come noterò più avanti, alcune qualità di Gentiloni sono innegabili, ma il segreto del consenso largo e trasversale del quale egli gode è soprattutto a motivo della sua differenza/alterità rispetto a Renzi. Di metodo e di stile, più che di sostanza politica.
Conosco un po’ Paolo. E- gli è intimamente (“antrop o lo g i ca m e nt e ”) romano. Pur essendo laico per convinzioni, è anche “va ti cano”. Non estraneo ai tratti dei suoi celebri avi, i conti Gentiloni, artefici del patto tra gerarchia cattolica e Giolitti a difesa degli “interessi cattolici” agli albori del secolo scorso. Un compromesso, uno scambio decisamente informato a realpolitik. Si potrebbe dire un andreottiano di nuova generazione. Il cui stigma è il disincanto, un lucido e crudo realismo intessuto di distaccata ironia. Come si conviene alla Chiesa, istituzione millenaria sopravvissuta a regimi politici di ogni colore.
Non vorrei essere frainteso: il realismo politico è anche una risorsa e una virtù, specie in politica estera, dove Gentiloni ha operato bene quale ministro alla Farnesina. Essendo le relazioni internazionali il regno per eccellenza della politica informata a rapporti di forza ( del resto, anche per Andreotti, la politica estera fu la cosa migliore, forse la sola).
L’apprezzamento per Gentiloni – azzardo – dice qualcosa a proposito degli alterni umori degli italiani, a volte inclini a dare credito all’uomo della provvidenza e alle sue miracolistiche promesse, ma pronti poi a sbarazzarsene per ripiegare nel più rassicurante conservatorismo. In una politica subalterna a poteri altri, refrattaria al cambiamento, priva di ambizioni alte.
Nella sua conferenza stampa di fine anno, Gentiloni ha affermato di ricono- scersi nella cifra politica di una “sinistra di governo”. Merita una messa a punto. Che l’azione del suo governo possa essere ricondotta a quella cifra è cosa controversa. Più di un indizio sembra smentire il sostantivo “sinistra”: penso alla distinzione/opposizione sul punto di Liberi e Uguali e alla scissione a sinistra del Pd di un anno fa; penso alla prospettiva da più parti accarezzata di un futuro governo sull’asse Pd-FI guidato appunto da Gentiloni; penso all’apprezzamento più volte espresso per l’attuale premier da Cavaliere e da Fedele Confalonieri.
ANCHE QUI un paradosso: non è riuscito a Renzi di realizzare il “partito della nazione” trasversale a destra e sinistra, sembra riesca oggi a Gentiloni di proporsi come “premier della nazione”, né di destra né di sinistra. Ma anche il genitivo qualificativo “(sinistra) di governo” esige una precisazione.
Sempre nella conferenza di fine anno, significativamente, Gentiloni ha voluto ridimensionare l’ambizione della politica di indirizzare i processi sociali. Al più, ha notato, la politica può “accompagnare”. Qui sì, si può scorgere una differenza rispetto a Renzi con la sua ambizione riformatrice persino giacobina, che talvolta indulge al populismo. Si può e si deve poi giudicare il segno e la direzione di tale ostentato riformismo renziano ed è assai dubbio che possa essere qualificato come di sinistra. Ma certo riflette una idea del primato della politica e della sua tensione al cambiamento che non si rinviene in Gentiloni. Ove il governo, al più, è buona amministrazione.
A ben vedere in questa ambiguità irrisolta sta uno dei problemi del Pd, della sua natura e del suo destino. Già nelle imminenti elezioni. Ma forse anche uno dei dilemmi di lungo periodo della politica italiana.
Deputato del Pd
QUEL TRATTO DEI FAMOSI AVI Paolo è intimamente, “antropologicamente” romano. Pur essendo laico per convinzioni, è anche “vaticano” quasi un andreottiano di nuova generazione
LA VERA DIFFERENZA In Renzi l’ambizione riformatrice quasi giacobina e populista, rimanda al primato della politica: questa voglia di cambiamento in Gentiloni non c’è