I corridoi umanitari, la cosa migliore da salvare del 2017
Che cosa salveresti di quest’anno? Guardo l’amico che mi fa la domanda e mi chiedo prima di tutto se l’utilizzo del verbo “salvare” sia casuale oppure no. Per me, pastore della chiesa valdese, il verbo è ricco di risonanze religiose e prima ancora bibliche, ma ammetto che ormai è stato secolarizzato e ha perso quella specifica memoria. Eppure, mentre penso alla risposta, le risonanze biblico-religiose non mi lasciano. Alla fine rispondo così all’amico: “P e ns o che di quest’anno salverei i corridoi umanitari”.
AVVIATI DUE ANNI FA g ra z i e all’iniziativa della Federazione delle chiese evangeliche in Italia, della Tavola valdese e della Comunità di Sant’Egidio e in accordo con il Governo italiano, hanno fatto giungere in Italia – in totale sicurezza per loro e per noi – mille profughi siriani, dotati dalle nostre autorità in Libano di un “visto umanitario” che ha consentito loro di fare immediata domanda d’asilo appena giunti nel nostro Paese. Una “buona pratica” replicata da analoghe iniziative in Francia e in Belgio con l’accordo dei rispettivi Governi. Anche in Italia i corridoi si sono moltiplicati: prima grazie ai vescovi cattolici italiani con un corridoio aperto dall’Etiopia, poi con la proroga di altri mille visti per l’iniziativa capofila e, a sorpresa, il 22 dicembre con l’arrivo a Roma del primo gruppo di profughi dalla Libia per iniziativa diretta del Governo con la collaborazione, di nuovo, dei vescovi cattolici.
Questo sviluppo dimostra che il modello ideato e varato da comunità cristiane ha una sua funzionalità e una sua logica che la politica ha ripreso, e dà la misura di ciò che insieme i cristiani possono fare per soccorrere chi soffre e bussa alla porta della nostra coscienza. Certo, già la definizione in sé – corridoio umanitario – sottolinea il limite di questa azione: non interviene alle radici delle guerre, delle ingiustizie e degli squilibri economici che provocano tanto dolore e tante fughe disperate. E soprattutto non salva tutti ma solo alcuni tra i più fragili. Ma resta il segno della volontà di voler almeno provare a fare qualcosa, di non restare inattivi di fronte al dispiegarsi del male, di rendere concreto ancora oggi l’insegnamento del Talmud ebraico: “Chi salva una vita, salva il mondo intero”.
Tra i testi biblici suggeriti per questa domenica di fine anno dal lezionario Un
giorno, una Parola ( Cl au di an a 2017) troviamo Esodo 3,7: “Il Signore disse: ‘Ho visto, ho visto l’afflizione del mio popolo che è in Egitto e ho udito il grido che gli strappano i suoi oppressori; infatti conosco i suoi affanni’”. Dal pruno che arde senza consumarsi, il Signore dichiara a Mosè che ha visto, che ha udito, che conosce il grido degli oppressi ed è pronto a realizzare un “corridoio umanitario” per salvare almeno uno dei popoli schiavizzati del grande impero egizio. Da questa “presa di coscienza” di Dio nasce un’epopea di liberazione – l’esodo dall’Egitto verso la Terra Promessa dove scorre il latte e il miele – che sarà il sogno ma anche il programma di “redenzione” di generazioni di schiavi, di oppressi e di migranti, un programma insieme religioso e politico che è stato ulteriormente sostenuto dall’insegnamento di amore, giustizia e speranza di Gesù, come ci ricorda l’altra citazione biblica indicata per oggi: “Dio ha tanto amato il mondo, che ha dato il suo unigenito Figlio, affinché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia vita eterna” ( G i ov a nn i 3,16).
TERMINO così il mio ciclo di riflessioni per questa rubrica domenicale. Ringrazio il direttore e i suoi collaboratori per l’opportunità che mi è stata data di rivolgermi a voi tutti. Come si augura ogni predicatore, spero di aver potuto far risuonare in voi non tanto le mie parole quanto piuttosto quelle di una tradizione molto antica eppure attuale più che mai.
* Moderatore della Tavola Valdese
NEL NOME DI CRISTO Una iniziativa che rende concreto ancora oggi l’insegnamento del Talmud ebraico: “Chi salva una vita, salva il mondo intero”