Storie dall’estero: i licenziati dal call center, l’acido e il Perù
In un disgraziato, lontanissimo Paese succede questo. L’azienda di call center dell’imprenditore progressista chiede ai propri dipendenti di ridursi gentilmente lo stipendio, che pure sarebbe già basso di suo: i lavoratori di una sede accettano, quelli di un’altra no. L’azienda, allora, un po’meno gentilmente, chiude la sede di quelli che avevano declinato la cortese richiesta in parte licenziandone gli addetti e trasferendone altri a 500 km di distanza. Poi succede che un giudice sostenga che quello dell’azienda sia un compor- tamento antisindacale e ordini il reintegro. Allora i manager di quell’azienda dicono: ma certo e reintegrano i lavoratori invitandoli a presentarsi al lavoro in una nuova sede, stavolta a 800 km di distanza, nonostante quella che doveva essere chiusa sia in realtà ancora aperta grazie a una commessa pubblica. E cosa hanno fatto, allora, i governanti di quel disgraziato Paese? Niente, assolutamente niente. Uno potrebbe esclamare “Oggesù!” di fronte a una vicenda in cui la violenza del potere e l’ignavia della po- litica si manifestasse in maniera tanto cristallina: ma non in quel Paese, dove la parola “Gesù” si preferisce sostituirla con “Perù” per non urtare la sensibilità dei diversamente credenti (“Opperù!”) e accade che ministri, peones e capi partito si occupino di un’innocua iperbole scritta su un giornale e non spendano una parola su quei lavoratori. Solo dopo aver leccato un acido (si può dire?) potremmo pensare che quel Paese è l’Italia, Repubblica fondata sul lavoro e non sulla mancanza di senso del ridicolo.