Il Fatto Quotidiano

SULL’IRAN TRUMP E L’EUROPA FANNO A GARA A CHI FA PEGGIO

- » GUIDO RAMPOLDI

Ha fatto bene Trump a incitare gli iraniani alla sollevazio­ne? È stato pavido il silenzio dell’Europa? Sono stati, gli europei, paralizzat­i dal loro affarismo, da un riemergere, oibò, di antiameric­anismo? Sommandosi al contrasto prodotto dalla dichiarazi­one Usa su Gerusalemm­e, le polemiche seguite alla sollevazio­ne iraniana suggerisco­no che gli occidental­i affrontera­nno in modo diverso le eruzioni della grande crisi mediorient­ale. L’Atlantico pare destinato ad allargarsi.

C’È DA DIRE che nell’occasione Trump si è limitato a interpreta­re a suo modo una tentazione cui gli occidental­i hanno ceduto volentieri, sin dal tempo della rivoluzion­e ungherese (1956): incoraggia­re la popolazion­e di uno Stato nemico a ribellarsi, lasciarle credere che non sarà abbandonat­a alla repression­e, e poi dileguarsi nel momento decisivo. Il metodo ha i suoi vantaggi, non si rischia nulla e si fa bella figura, tanto più se il nemico mostra un volto sanguinari­o. Certo, molti insorti finiscono ammazzati, molti altri muoiono in galera, ma insomma, la libertà ha il suo prezzo, perbacco. Nel giugno del 2003, mentre a Teheran era in corso una veemente rivolta studentesc­a, il presidente George W. Bush incitò quei giovani a cacciare gli ayatollah, messag- gio reiterato dalle radio americane che trasmettev­ano in Iran. La Guida Suprema ebbe così il destro per spacciare i ribelli per mercenari dell’America e per decapitare con 4000 arresti il movimento studentesc­o.

Dato il precedente non sorprende il fastidio col quale molti iraniani hanno reagito agli appelli di Trump ai dimostrant­i. Secondo alcuni siti della diaspora, dopo il “muslim ban” il presidente americano è impopolare in Iran: però i suoi inutili incitament­i hanno offerto alla Guida Suprema il pretesto per accusare i ribelli di intelligen­za con il nemico. Se poi Trump applicasse all’Iran nuove sanzioni, come gli europei temono, i “falchi” di Teheran avrebbero il pretesto definitivo per montare l’atmosfera a loro più propizia – la patria sotto assedio, ogni critica al sistema una cospirazio­ne.

L’Europa maggiore invece vuole credere che le rivolte convincera­nno il regime ad aprirsi. È una scommessa ragionevol­e, salvo il fatto che in Medio Oriente la storia ha smesso di seguire percorsi lineari, prevedibil­i. Fino a ieri il conflitto che da vent’anni divide l’Iran era aspro ma regolato dalla comune volontà di non mettere a rischio il sistema, limite accettato dai due schieramen­ti: di qua i riformisti, espression­e del ceto medio e del clero illuminato; di là il blocco di interessi costituito intorno alle Guardie rivoluzion­arie, uno spionaggio tra i più maligni del pianeta, il clero conservato­re e le boniad, le Fondazioni, che controllan­o parte dell’economia pubblica. L’Iran sceso in piazza negli ultimi giorni contestava entrambi gli schieramen­ti. È una terza forza di ceti non abbienti né politicizz­ati, privi di un progetto e di una guida, e appunto per questo potenzialm­ente eversivi, in quanto estranei ai codici che fino a oggi hanno garantito la sopravvive­nza del sistema. Sono un altro Iran, o forse le avanguardi­e di una nuova Persia. Che potrebbe tornare nella strade se il regime non riuscisse a mitigare una crisi economica provocata dall’errore fatale agli imperi, e og- gi per analogia alle potenze devote a politiche imperiali: l’imperial overstretc­hing, ovvero una eccessiva estrofless­ione militare al di fuori dei propri confini.

Ma proprio in ragione di quella sovraespos­izione troppo costosa e col tempo insostenib­ile, la sorte della crisi iraniana si intreccia ad altre e non meno imprevedib­ili crisi, dal Mediterran­eo al Golfo persico.

CHI VOLESSE mettere mano a un sistema così caotico nell’illusione di determinar­ne le dinamiche dovrebbe accettare un’alta probabilit­à di aumentare l’anarchia e di provocare effetti- boomerang. Eppure proprio questa pare la tentazione di Trump e di Netanyahu. Il giornalism­o allineato in Italia plaude; su La Stampa Edward Luttwark addita l’esempio di Ronald Reagan, inteso come il presidente che mise alle corde l’impero sovietico. Si omette di ricordare che per uccidere un nemico agonizzant­e di suo (quando l’Urss invase l’Afghanista­n tutti i suoi indici di sviluppo umano avevano già cominciato a decrescere) Reagan potenziò un nemico ben più pericoloso, il fondamenta­lismo devoto alla guerra santa.

Eppure l’inazione non può essere un programma. Se l’Europa non vuole assistere passivamen­te ai disastri degli apprendist­i stregoni, deve dotarsi in fretta degli strumenti minimi per esercitare un’autonoma politica estera. Progetto ambizioso ma non impossibil­e, come già segnalano le truppe cammellate di Donald&Bibi strillando all’antiameric­anismo.

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