Fondi pubblici, la rivolta delle piccole tv locali
Ricorsi al Tar contro la nuova legge che assegna alle emittenti 110 milioni di euro
Una
legge che dovrebbe aumentare la qualità e il pluralismo dell’informazione. E invece rischia di produrre l’effetto contrario, andando a colpire le emittenti delle regioni più povere e meno abitate. Questo l’allarme che arriva dalle tv locali italiane, che hanno visto cambiare i criteri di assegnazione delle risorse annuali da parte dello Stato. Parliamo di un universo di almeno 600 canali televisivi che, dopo l’ampliamento dell’offerta dovuta al digitale terrestre e alle pay tv, fanno sempre più fatica a stare sul mercato, specialmente nelle zone depresse del Paese, dove la raccolta pubblicitaria è più bassa.
A fine ottobre 2017, infatti, è entrato in vigore il Dpr (decreto del presidente della Repubblica) che ha riformato la disciplina dei contributi pub- blici alle tv locali: una torta che, per l’anno 2016, è di circa 100 milioni di euro, di cui il 95% andrà alle prime cento emittenti e il restante 5% a tutte le altre.
LA VECCHIA LEGGE assegnava le risorse secondo due criteri: il numero dei dipendenti e il fatturato. Un meccanismo scricchiolante, il cui difetto principale era quello di premiare sempre i canali maggiori. Ogni anno i vari Corecom (braccio locale dell’Agcom) avevano il compito di portare a termine l’istruttoria su base regionale da cui veniva stilata la graduatoria delle emittenti che finiva sul tavolo del ministero dello Sviluppo economico, da cui poi partivano i fondi. Dopo una lunga attesa, la nuova legge ha visto la luce con l’obiettivo di aumentare il pluralismo, quindi attribuire maggiori risorse a più emittenti. E premiare le aziende e- ditoriali rispetto a quelle che puntano solo al profitto. Il primo criterio di assegnazione dei fondi (il numero dei dipendenti) è rimasto lo stesso. Ma è cambiato il secondo: non si guarderà più al fatturato ma all’indice di ascolto – la cosiddetta audience – secondo i da- ti Auditel. Che però non viene rapportato in alcun modo al numero degli abitanti. Ed è questo il punto contestato dalle piccole tv: un’emittente della Basilicata o della Valle d’Aosta non potrà mai avere un numero di telespettatori paragonabile a una tv lombar- da. “In questo modo le regioni meno abitate saranno sempre svantaggiate, quindi il criterio redistributivo, che doveva essere uno dei principi ispiratori, viene meno”, fa notare Massimo Romano, il legale che, assieme ai colleghi Giuseppe Ruta e Margherita Zezza, sta seguendo il ricorso presentato al Tar del Lazio da alcune emittenti di Abruzzo e Molise.
“Non entro nel merito del contenzioso, sarà il tribunale a decidere. Faccio però notare che le nuove norme derivano da un parere delle commissioni parlamentari su indicazione anche di rappresentanti delle emittenti locali, che il governo ha recepito”, spiega il sottosegretario alle Comunicazione, Antonello Giacomelli (Pd). Dall’esecutivo si fa notare che il Dpr premia chi fa davvero l’editore: per accedere ai fondi una tv deve trasmettere almeno due notiziari al giorno e avere tra i dipendenti un numero di giornalisti che varia da regione a regione.
Si va in tribunale Contestati i criteri di valutazione (tra cui l’indice di ascolto). Replica dal governo: “Tutti d’accordo”
IL SECONDO aspetto contestato dalle piccole tv è il potere dato all’Auditel, che non è un ente terzo, ma una società privata partecipata, tra gli altri, da Rai, Mediaset, La7. “Sì, ma l’Auditel è l’unica società in Italia in grado di realizzare questo tipo di monitoraggio”, rispondono dal governo.