“Vogliono libertà e dignità: come nel 2011”
La docente: “In Tunisia troppi problemi: fasce deboli trascurate e il terrorismo non aiuta”
“L’Europa
si è dimenticata della Tunisia. Dalla Rivoluzione dei gelsomini nel 2011 è nato un Paese completamente nuovo. Ma nessuno, purtroppo, ha poi aiutato il bambino a camminare con le sue gambe”. Leila El Houssi, italo-tunisina, è docente di Storia dei Paesi Islamici presso l’Università di Padova.
Dopo quattro giorni di scontri in diverse città e oltre 600 arresti, le manifestazioni contro il carovita non accennano a placarsi. Il premier Youssef Chahed ha condannato gli atti di “vandalismo” di chi cerca solo di “indebolire lo Stato”. Le proteste sono state scatenate dall’aumento dei prezzi, determinato da politiche di austerity decise dal governo sotto pressione del Fondo Monetario Internazionale (Fmi), che nel 2015 ha concesso a Tunisi un prestito da 2.9 miliardi di dollari.
Per cosa scendono in piazza i tunisini?
La Tunisia sta costruendo faticosamente un percorso verso la democrazia. Il problema è che, caduto un regime che dal 1957 aveva espresso due soli presidenti (Bourghiba fino all’87 e poi Ben Ali), la crisi economica è peggiorata. La disoccupazione è arrivata al 15%, molte aree soffrono e si sentono lasciate indietro, lamentando l’arricchimento di pochi notabili. Inoltre, i due attentati del Bardo e di Sousse hanno inferto un colpo mortale al turismo, uno dei settori vitali dell’ economia tunisina. Molte aziende, anche italiane, hanno lasciato il Paese, preferendo il Marocco, giudicato più stabile.
Chi scende in piazza si richiama alla Rivoluzione dei gelsomini del 2011?
Il simbolismo è forte: quel movimento iniziato il 17 dicembre 2010, si concludeva il 14 gennaio 2011. In questi giorni il principale sindacato ha convocato una grande manifestazione proprio per domenica prossima, settimo anniversario di quella data. In piazza sento risuonare le stesse parole di allora: libertà e dignità. Oggi però c’è molto più disincanto. Il Paese è in ginocchio e ci si chiede come abbiano fatto a fallire in questi ultimi anni sia le ricette del partito islamico Ennahda che quelle di Nidaa Tunes, attualmente al governo.
La Tunisia viene considerata l’eccezione democratica del mondo arabo. Con quali limiti?
La transizione ha dovuto fare i conti con il pericolo jihadista. La Tunisia ha esportato foreign fighters verso Siria e Iraq arruolati dall’Isis, e la lotta al terrorismo ha limitato lo sviluppo delle libertà democratiche. Il problema però è anche sul versante sociale. La percezione popolare è quella di un governo che, per far quadrare i conti, si rivale sulle fasce più deboli della società.
Cosa rimane valido e cosa invece si è dimostrato sba- gliato dell’epoca delle ‘primavere arabe’ cominciata proprio con la rivolta in Tunisia?
Da storica, direi che sette anni sono un soffio di tempo, uno spazio brevissimo. Ecco perché non parlerei di fallimento, come si potrebbe sostenere guardando al regime autoritario in Egitto o al caos in Libia e in Siria. La rivolta tunisina del 2011 ha rotto per la prima volta quello che una politologa francese ha definito “la forza dell’obbedienza”, a cui tutti gli arabi erano soggetti. Le libertà che l’Occidente ha acquistato dopo la Grande Rivoluzione del 1789 – di parola, di espressione, di satira – si stanno aprendo adesso per il mondo arabo. Ecco, il 2011 ha ridato voce alla gente. Ci vorrà tempo prima che tutto questo si compia: è un processo lunghissimo di cui vediamo solo l’inizio.
Il Paese è in ginocchio: hanno fallito sia il partito islamico Ennahda sia Nidaa Tunes, attualmente al governo