“Napolitano appoggiò Mancino che voleva condizionare i pm”
DI MATTEODurissima requisitoria a Palermo nel processo sulla trattativa Stato-mafia
■Fendente contro il presidente emerito: “Sostenne l’omertà dell’ex ministro dell’Interno, che era ossessionato dalla possibilità di essere messo a confronto in aula con Claudio Martelli”
Il pubblico ministero Antonino Di Matteo alza gli occhi dalle carte e guarda la giuria della Corte d’Assise nell’aula bunker del carcere dell’Ucciardone a Palermo. Ha appena finito di leggere le intercettazioni delle conversazioni del 2011-2012 tra Nicola Mancino e Loris D’Am b ro s io , scomparso nel luglio 2012, allora consigliere per la giustizia del presidente Napolitano. Mancino oggi è imputato per falsa testimonianza. Allora cercava di pressare il suo amico presidente perché intervenisse in suo favore in vista di un confronto davanti ai magistrati con l’ex ministro Claudio Martelli.
DOPO AVER LETTOuna decina di conversazioni di D’Ambrosio con Mancino e dopo una lunga pausa, Di Matteo guarda il presidente della Corte di Assise di Palermo Alfredo Montalto e scandisce: “Signor presidente e signori della Corte, vi ho letto tutte queste pagine perché da queste intercettazioni risulta il tentativo del ‘ privato cittadino’ N i co l a Mancino, di influire e condizionare l'attività giudiziaria degli uffici del pm e addirittura le scelte di un collegio di giudici”. Altra pausa. Chissà se ripensa alle polemiche seguite alla decisione di sentire come testimone il presidente sui fat- ti del 1992-93; chissà se ripensa alla richiesta di Napolitano – accolta dalla Consulta – di distruggere le sue telefonate con Mancino. Di Matteo tira un sospiro e finalmente può dire quel che pensa da anni su Napolitano: “Ebbene, quel tentativo, invece di essere doverosamente stoppato in partenza, venne assecondato e alimentato dal Quirinale e – per quello che l’allora consigliere giuridico D'Ambrosio riferisce a Mancino – dal presidente Napolitano in persona”.
Il processo Trattativa vede alla sbarra i boss detenuti Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca oltre al medico mafioso Antonino Cinà. E poi i vertici e gli ufficiali del Ros dei Carabinieri di allora, cioè Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno, con il politico Marcello Dell'Utri, tutti accusati di violenza a corpo politico, amministrativo o giudiziario. Sarebbero i protagonisti, da un lato o dall’altro, della cosiddetta trattativa tra lo Stato e la mafia. Mentre l’ex ministro Mancino è imputato solo per la sua presunta falsa testimonianza sulla conoscenza del dialogo carabinieri-mafiosi.
SUL PUNTO, secondo Di Matteo, Mancino “ha scelto la menzogna e l’omertà istituzionale”. Ecco perché “era ossessionato dalla possibilità di essere messo a confronto in aula con l'ex ministro della Giustizia Martelli e perciò esercitò un pressing costante e ostinato verso il Quirinale per sollecitare un intervento che gli consentisse di evitarlo”. Per Di Matteo, Mancino spingeva su D’ambrosio e lo stesso Napolitano al fine di ottenere un intervento sul procuratore nazionale antimafia di allora, Pietro Grasso, e sul procuratore generale della Cassazione, capo di Grasso. Quell’azione era giustificata con le esigenze di coordinamento tra i diversi uffici che indagavano allora sui temi delle stragi e della trattativa, cioè Caltanissetta, Palermo e Firenze. Però quelle telefonate “al di là di tutte le apparenze di un coordinamento dei vari uffici già realizzato” avevano per il pm un altro obiettivo: “Evitare il confronto con Martelli”. L’ex ministro aveva riferito ai pm di essersi adirato nel 1992 con i carabinieri del Ros, quando era stato informato dei loro incontri con il mafioso Vito Ciancimino. Martelli aveva detto ai pm di essersi lamentato con Mancino, già nel 1992. Mancino aveva negato e proprio su questo punto i pm di Palermo volevano il confronto. Mancino lo voleva evitare. D’Ambrosio diceva a Mancino nel marzo del 2012 che “il presidente ha preso a cuore la questione ma mi pare difficile che possa fare qualcosa”. Poi aggiungeva che “il pm Di Matteo in udienza è autonomo. Intervenire sul collegio (dei giu- dici, ndr) è una cosa molto delicata”. Poi ancora: “Io ho parlato con il presidente e ho parlato con Grasso, non vediamo molti spazi... adesso il presidente parlerà con Grasso... la vediamo difficile”. A questo punto ieri Di Matteo ha letto la frase di D’Ambrosio che – secondo il pm – rivela un intervento ‘irrituale’ dell’ex capo dello Stato: “Il problema – diceva D’Ambrosio a Mancino – è il contrasto di posizione con Martelli”. Poi aggiungeva: “tanto che il presidente ha detto: ‘ma lei ha parlato con Martelli?’”. E Mancino (che forse temeva di finire nei guai per un tentativo di condizionare un teste chiamato a un confronto con lui) frenava: “Ma io non posso parlare con Martelli”. Il tentativo di intervenire – tramite la Procura generale – su Grasso e poi su Di Matteo, si concretizzò poi in una riunione del 19 aprile del 2012. Di Matteo ieri ha lodato più volte “l’atteggiamento intransigente e corretto di Grasso”.
PER DI MATTEO il tentativo del Quirinale su istigazione di Mancino di intervenire fu stoppato grazie alla “posizione assolutamente corretta del procuratore Grasso che ha immediatamente respinto al mittente ogni pressione”. Il pm ha poi ricordato una conversazione nella quale Mancino chiede a D’Ambrosio di non essere lasciato solo anche per una presunta ragion di Stato: “ma che razza di Paese è? Se lo Stato non tratta con le Br, fa morire uno statista, se tratta con la mafia ha causato altre morti... se qualcuno ha fatto qualcosa poteva anche dire: ‘Ma io volevo tutte le garanzie’”. Per Di Matteo quella conversazione “sembra una sorta di chiamata alle armi di Mancino per non essere lasciato con il cerino in mano nel contesto di un dialogo a distanza tra lo Stato e la mafia”.
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