USA, IL POPOLO DIMENTICATO
Dietro ogni fatto presentato al mondo – da un insegnante, da uno scrittore, da chiunque – c’è un giudizio. Il giudizio che è stato elaborato è che quel fatto è importante, mentre gli altri fatti non citati non sono importanti. Ci sono fatti che per me hanno grande rilevanza, ma che non ho trovato nella narrazione storica ortodossa. Queste omissioni ci danno una visione distorta del passato e ci ingannano sul presente. Per esempio, viene rimossa ogni questione di classe. Si finge, come nel Preambolo alla Costituzione americana, che siamo stati “noi, il popolo” a scrivere quel documento, e non 55 uomini bianchi privilegiati il cui interesse di classe richiedeva un forte governo centrale. Quest’uso dei poteri pubblici per obiettivi di classe è continuato fino a oggi. Si maschera dietro un linguaggio che suggerisce che tutti noi – ricchi, poveri e classi medie – abbiamo un interesse comune.
Quando il presidente dichiara che “La nostra economia è solida”, non sta riconoscendo che per 40 o 50 milioni di persone che faticano a sopravvivere solida non lo è affatto, anche se è solida per buona parte delle classi medie ed estremamente solida per quell’1 per cento del Paese. Alle varie epoche della storia nazionale vengono attribuite etichette che riflettono il benessere di una classe e ignorano il resto. Quando ho passato in rassegna gli archivi di Fiorello La Guardia, che negli anni Venti rappresentava East Harlem al Congresso, ho letto lettere di casalinghe disperate, con mariti che avevano perso il lavoro e figli affamati e che non riuscivano a pagare l’affitto: tutto questo in un periodo divenuto celebre come “età del jazz” o “anni ruggenti”.
Gli interessi di classe sono da sempre oscurati dal velo dell’“interesse nazionale”. La mia personale esperienza di guerra, e la storia di tutti gli interventi militari in cui si sono impegnati gli Stati Uniti, mi rendono scettico quando sento invocare da politici di rilievo l’“interesse nazionale” o la “sicurezza nazionale”. È con queste giustificazioni che Truman avviò una “azione di polizia” in Corea causando la morte di parecchi milioni di persone, che Johnson e Nixon fecero scoppiare una guerra in Indocina in cui persero la vita tre milioni di persone, che Reagan invase Grenada, Bush padre attaccò Panama e l’Iraq e Clinton bombardò l’Iraq. Si tratta di “interesse nazionale” quando poche persone decidono una guerra e moltissime altre vengono uccise e mutilate per effetto di questa decisione? Non dovrebbero, i cittadini, chiedere nell’interesse di chi facciamo quel che facciamo?
Mi domando come sarebbe la politica estera degli Stati Uniti se, almeno nella nostra mente, spazzassimo via ogni confine nazionale e pensassimo ai bambini di ogni luogo come se fossero i nostri. Non potremmo mai sganciare una bomba atomica su Hiroshima, o al napalm sul Vietnam, oppure dichiarare guerra dappertutto, perché le guerre sono sempre combattute contro i bambini, proprio i nostri bambini.
C’è poi, per quanto ci sforziamo di rimuoverla, la questione della razza. Non mi rendevo conto, all’epoca in cui cominciai a tuffarmi nella storia, di quanto l’insegnamento e il racconto scritto della storia fossero pervasi della tendenza a inabissare le persone non bianche. Sì, c’erano gli indiani, ma poi sparivano. Le persone di colore erano visibili quando erano schiave, poi diventavano libere e invisibili. Era una storia dell’uomo bianco. Dalla prima elementare alla specializzazione, non mi era stato dato neanche un indizio del fatto che lo sbarco di Cristoforo Colombo nel Nuovo mondo fosse stato il principio di un genocidio, con cui la popolazione indigena di Hispaniola fu annientata. Oppure del fatto che si trattasse solo della prima tappa di un processo che, pur essendo presentato come l’espansione innocua di una nuova nazione (“acquisto” della Louisiana, “acquisto” della Florida, “cessione” messicana), implicò l’espulsione violenta degli indiani da ogni Storia chilometro quadrato del continente, accompagnata da indicibili atrocità, finché non restò che ammassarli nelle riserve.
Un giorno del 1998 fui invitato a parlare del massacro di Boston a un simposio nella storica Faneuil Hall della città. Dissi che sarei stato lieto di presenziare, purché avessi potuto evitare di discutere del massacro di Boston. Così, nel mio intervento non trattai l’uccisione di cinque coloni da parte delle truppe britanniche nel 1770: credevo che avesse ricevuto un’attenzione eccessiva per oltre duecento anni. Tutti i bambini americani, a scuola, apprendono del massacro di Boston. Ma chi apprende del massacro, nel 1637, di 600 uomini, donne e bambini della tribù pequot nel New England? Oppure del massacro perpetrato dai soldati statunitensi, nel bel mezzo della Guerra civile, di centinaia di famiglie indiane a Sand Creek, in Colorado? O ancora dell’attacco militare portato da 200 soldati a cavallo che nel 1870, nel Montana, spazzò via un accampamento di indiani piegan?
È facile scoraggiarsi davanti al passato, soprattutto considerando che questo, e nient’altro, è ciò che la stampa e la televisione insistono nel farci vedere. Ma, sotto la superficie dell’obbedienza c’è anche (sebbene ci venga in gran parte nascosto, per tenerci intimoriti e privi di speranza) il ribollire del cambiamento: la crescente repulsione verso le guerre infinite (penso alle donne russe che negli anni Novanta hanno chiesto al loro paese di porre fine all’intervento militare in Cecenia, come gli americani durante la guerra in Vietnam); l’ostinazione con cui donne di tutto il mondo si rifiutano di tollerare oltre subalternità e abusi. Vediamo all’opera, per esempio, un nuovo movimento internazionale contro le mutilazioni genitali femminili, o la militanza di madri che ricevono sussidi pubblici contro leggi che le penalizzerebbero. C’è la disobbedienza civile contro la macchina militare, la protesta contro le violenze gratuite della polizia nei confronti di persone di colore.
Negli Stati Uniti vediamo che il sistema educativo, una nuova e promettente letteratura, stazioni radiofoniche locali, una valanga di documentari indipendenti, persino la stessa Hollywood e talvolta la tv sono costretti a riconoscere il carattere sempre più multirazziale del Paese. Sì, in questa nazione dominata dalla ricchezza delle corporation, dal potere militare e da due partiti antiquati, abbiamo ciò che una destra impaurita definisce una “cultura antagonista permanente”, che sfida il presente e chiede un futuro nuovo. È una sfida a cui tutti noi possiamo scegliere di partecipare, oppure possiamo restare a guardare. Le nostre scelte contribuiranno a determinarne gli esiti. Mi vengono in mente le parole del poeta Shelley, che le lavoratrici di una fabbrica di indumenti a New York recitavano una all’altra
all’inizio del XX secolo: Levatevi come leoni dopo il torpore in numero invincibile, fate cadere le vostre catene a terra come rugiada che nel sonno sia scesa su di voi.
Voi siete molti, essi son pochi
Chi è HOWARD ZINN (1922-2010) è stato un celebre storico e militante radicale statunitense. Il Saggiatore ripubblica ora l’ultima edizione del suo libro più importante, “Storia del popolo americano dal 1492 a oggi”. Pubblichiamo uno stralcio della postfazione scritta dall’autore a questa edizione. Il libro è uscito in libreria in questi giorni