Web-eternità: se mi lasci non ti cancello
VOGLIO ANDAR VIA Una volta online, tornare ad essere invisibili alla rete richiede competenze e sforzi che la maggior parte delle persone non possiede, compresi il tempo e la voglia necessari a farlo
Prendi il telefono, posa il telefono. Scroll. Apri Facebook, controlla. Apri Instagram, controlla. Ci pensi: perché hai disattivato le notifiche? Magari sei sulla strada del regista Luca Guadagnino, che “Ho deciso, butto lo smartphone, voglio liberarmi da questa dipendenza”, ha detto al Fatto. Avrà il coraggio? Boh. E poi lui è per il vis à vis, anche la tv è già troppo (pare). Jim Carrey, intanto, sta cancellando la sua presenza sul social network di Mark Zuckerberg, cedendo le sue azioni (non ha specificato quante). Ha invitato chiunque investa e “abbia a cuore il nostro futuro” a fare altrettanto, agevolando pure il chirurgico hashtag # u nf rie nd fa ceb oo k. Non ha perdonato al social le interferenze concesse al Cremlino ( aver ospitato pubblicità e contenuti di gruppi pro-Russia che avrebbero inciso sulle elezioni di Trump) e di non fare abbastanza per evitare che il problema si ripeta. Lo scrive su Twitter che pure, con altri giganti della rete, continua a rispondere di quanto accaduto con il Russiagate davanti al Congresso Usa.
L’IDEA di abbandonare l’“Always on” (sempre connessi), tocca tutti, prima o poi. Non serve essere appena usciti dalla visione di Black Mirror (anche perché basterebbe Perfetti sconosciuti). Il punto non è decidere: è che, una volta deciso, bisogna averne davvero voglia. La cancellazione degli account richiede molto più tempo dell’iscrizione. E le piattaforme provano a trattenerti, come le compagnie telefoniche quando minacci di cambiare operatore. “Siediti, rilassati. Esiste un piano B”, sembrano suggerire. Quello offerto da Facebook, tanto per fare un esempio, è di disattivare l’account senza rimuoverlo per sempre.
Intanto, bisogna andare in “Impostazioni”, sotto la voce “Gestisci account”. Se si ha l’ardire di premere su “Scopri di più” alla voce “Disattiva il tuo account”, bisogna essere pronti a farsi legare come Ulisse. Itaca è lontana.
“Se desideri mettere in pausa la tua attività su Facebook, puoi disattivare il tuo account”, recitano le informazioni di servizio, strutturate in schede. C’è una freccia, seguono altre notizie (il nome verrà rimosso, ma qualche informazione potrebbe rimanere online). Altre frecce. Cresce la tensione. Se vai in pausa, puoi tornare. Altrimenti: “Se decidi di eliminare in modo definitivo il tuo account anziché disattivarlo, non potrai accedervi di nuovo”. Sappilo. Dopotutto, non è un meccanismo fuori di senno, se si pensa alla quantità di dati che ogni utente riversa online ogni minuto (secondo?). Molti. Per avere un’idea di quanti, occorrerebbe leggere i contratti che vengono sottoscritti con gli utenti. Esatto, quelli che nessuno ha voglia di leggere.
IL COMMISSARIO per l’Infanzia dell’Inghilterra (con Tes e l’aiuto di Schillings, azienda specializzata in materia di privacy), ha realizzato delle guide che traducono diritti e doveri dell’utente dal legalese in cui sono scritti, a una lingua comprensibile. Sono divisi addirittura in versioni per fascia d’età. Sono utilissimi anche agli adulti. Per esempio, nella versione per i ragazzi dai 14 ai 16 anni delle guide, viene spie- gato che è diritto di YouTube collegare i dati in suo possesso con altre informazioni che ha Google a riguardo (la piattaforma di streaming video è proprietà di Google). Il che potrebbe includere amici, interessi, luogo di residenza, messaggi Gmail, etc.
Giusto, la posta elettronica. Come hanno scritto Kevin D. Mitnick e Robert Vamosi nel libro The Art of Invisibility: The World’s Most Famous Hacker Teaches You How to Be Safe in the Age of Big Brother and Big Data: “Chi usa Gmail sa che una copia di ogni email ricevuta e inviata è conservata dai vari server di Google”. Il che vale in egual misura per i servizi delle altre aziende, da Microsoft a Apple.
Niente di assurdo: i dati sono merce. È la moneta sonante del mercato digitale. Quanto valga la pena concederli, sta alla sensibilità e alle ideologie di ognuno. Il succo è che una volta online, essere invisibile richiede competenze e sforzi che la maggior parte delle persone non possiede, insieme alla voglia. La stessa che serve anche solo per controllare a quali dati stiamo dando accesso a piattaforme e app: mai fatto un giro tra le applicazioni che avete autorizzato su Facebook e che restano lì anche quando avete smesso di usarle (vedi quelle per i vari quiz di turno che ti svelano che personaggio sei o come sarai da vecchio). Mai fatta una gita fuori porta, tra “Le mie attività” dell’account Google, per vedere quali movimenti online state consentendo di registrare, e quali no?
Ecco, appunto. E poi, chi vatteli a ricordare tutti gli account aperti nel giro di un’esistenza. Ci sono servizi che fanno questo: Deseat.me promette di ripulire la propria presenza online. L’autenticazione avviene con Gmail o Outlook, e una volta entrati, il sito mostra i profili aperti in giro.
LA DIFFICOLTÀ di cancellare gli account – su Instagram bisogna andare dentro il “Centro di Assistenza”, mentre per Twitter accedere da web – sono figlie della stessa mancanza di voglia di controllare le impostazioni della privacy di ogni servizio. Per questo, quando qualcuno tira fuori l’idea di una qualche dieta digitale, ci troviamo tutti lì sul cornicione, come i personaggi di
Non buttiamoci giù, di Nick Hornby: in cerca di qualcuno che ci sottragga a quella sorte. E i social, puntualmente, lo fanno.
IL ROMPICAPO DELL’ABBANDONO
La cancellazione è difficile E le piattaforme provano a trattenerti, come le compagnie telefoniche
L’APP CHE TI AIUTA A SCOMPARIRE ”Deseat.me” promette di ripulire la presenza online Una volta entrati, il sito mostra i profili aperti in giro