L’Italia giusta e silenziosa di un macchinista delle Ferrovie
Caro Leo, bei ricordi. Io sapevo di uno che era ferroviere, “macchinista ferroviere”, come direbbe Guccini. Era vedovo durante il fascismo, la moglie, bellissima, morì giovane, e lui rimase con una piccola tribù da figli da crescere. Bell’uomo, era un tipo brusco e solitario, che parlava poco, soprattutto delle sue idee politiche. E non per vigliaccheria (giustificata durante il “radioso” Ventennio e praticata da milioni di italiani), ma solo perché era fatto così. Un individualista, un anarchico, che però sapeva da che parte stare. Tutti prendevano la tessera del fascio e delle corporazioni. Lui no. Gli altri iscrivevano i figli alle varie organizzazioni del regime (balilla, figli della lupa). Lui no.
Ogni anno, il 6 gennaio, tutti i figli dei ferrovieri, ben vestiti per l’occasione, andavano a ritirare il loro piccolo premio alla Befana del dopolavoro. Caramelle e bamboline, strette di mano, sorrisi e discorso del federale. Lui no. I figli suoi no.
TIRA E MOLLA successe che lo licenziarono e lui, il macchinista ferroviere, dovette fare mille mestieri per tirare su la prole. Un altro suo figlio, il primo, ferroviere pure lui, partì per la guerra. Taciturno come il padre, quando tornò nessuno riuscì a strappargli una parola su quella sua esperienza terribile.
Passarono anni e i figli trovarono in soffitta un vecchio zaino, lo aprirono, dentro una pistola arrugginita, un fazzoletto rosso e alcune foto ingiallite di una brigata partigiana jugoslava. Come suo padre, non aveva tessere di partito, organizzazioni alle spalle, le idee forse erano anche poche e confuse. Ma come il padre, quando fu necessario, seppe cosa fare. Sotto il fascismo c’è stata anche una Italia così, silenziosa e resistente. Queste due storie le ho sentite mille volte, raccontate da mia madre. Perché quel vecchio e burbero macchinista ferroviere era suo padre.