Il Fatto Quotidiano

“Da questa tragedia credevo potessero salvarmi le parole”

RESTO QUI Il nuovo romanzo di Marco Balzano, Premio Campiello 2015: la storia collettiva e personale di un paese del Sudtirolo sommerso dall’acqua e poi “cancellato” dal fascismo

- » MARCO BALZANO

Fatti, storie, fantasie, ciò che contava era averne fame e tenersele strette per quando la vita si complicava o si faceva spoglia

Da oggi in libreria “Resto qui” di Marco Balzano: storia di una madre che alla ferita collettiva di aver visto spazzato via il proprio paese, Curon, dall’acqua e i nomi sulle lapidi cancellati da Mussolini, somma il suo personale dolore. Sua figlia è scomparsa e di lei si sono perse le tracce. A questa tragedia Trina prova a opporre la forza del racconto: finché alla sua porta non bussa la guerra. Pubblichia­mo di seguito l’incipit del libro.

Non sai niente di me, eppure sai tanto perché sei mia figlia. L’odore della pelle, il calore del fiato, i nervi tesi, te li ho dati io. Dunque ti parlerò come a chi mi ha visto dentro. Saprei descrivert­i nei minimi particolar­i. Anzi, certe mattine che la neve è alta e la casa è avvolta da un silenzio che mozza il respiro mi vengono in mente nuovi dettagli.

QUALCHE SETTIMANA

fa mi sono ricordata di un piccolo neo che avevi sulla spalla e che quando ti facevo il bagno nella tinozza mi indicavi sempre. Ti ossessiona­va. O quel boccolo dietro l’orecchio, l’unico in quei capelli color miele.

Le poche fotografie che conservo le tiro fuori con prudenza, col tempo si diventa di lacrima facile. E io odio pian- gere. Odio piangere perché è da idioti, e perché non mi consola. Mi fa solo sentire spossata, senza più voglia di mandare giù un boccone o di infilarmi la camicia da notte prima di andare a dormire. Invece bisogna curarsi, stringere i pugni anche quando la pelle delle mani si copre di macchie.

Lottare a prescinder­e. Questo mi ha insegnato tuo padre. In tutti questi anni mi sono sempre immaginata come una buona madre. Sicura, brillante, amichevole... aggettivi che non mi calzano proprio. In paese mi chiamano ancora signora maestra, ma mi salutano da lontano. Sanno che non sono un tipo affabile. A volte mi torna in mente il gioco che facevo fare ai bambini di prima elementare. “Disegnate l’animale che vi assomiglia di piú”. Adesso disegnerei una tartaruga con la testa nel guscio. Mi piace pensare che non sarei stata una madre invadente. Non ti avrei chiesto, come ha sempre fatto la mia, chi era questo o quell’altro, se gli davi retta o se ti ci volevi fidanzare. Ma forse è un’altra delle storie che mi racconto e se ti avessi avuta qui ti avrei tempestata di domande, guardandot­i di sghimbesci­o a ogni risposta evasiva.

Piú passano gli anni e meno ci si sente migliori dei genitori. Se faccio paragoni adesso, poi, sono in netto svantaggio. Tua nonna era spigolosa e severa, aveva le idee chiare su tutto, distinguev­a facilmente il bianco dal nero e non si faceva problemi a tagliare con l’accetta.

Io invece mi sono persa in una scala di grigi. Secondo lei era colpa dello studio. Considerav­a chiunque fosse istruito una persona inutilment­e difficile. Uno scioperato, un saccente, uno che sta a spaccare il capello in quattro. Io invece credevo che il sapere piú grande, specie per una donna, fossero le parole. Fatti, storie, fantasie, ciò che contava era averne fame e tenersele strette per quando la vita si complicava o si faceva spoglia. Credevo che mi potessero salvare, le parole.

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Curon Venosta Dal lago artificial­e di Resia spunta il campanile del vecchio borgo sommerso

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