Il Fatto Quotidiano

CARCERI, LA RIFORMA È BUONA. MA NON C’È

- » GIOVANNI MARIA FLICK

Nel 2015 gli Stati generali sul carcere e una successiva commission­e ministeria­le hanno avviato la riforma dell’ordinament­o penitenzia­rio, giungendo alla legge delega e al decreto legislativ­o oggi in fibrillazi­one con tre anni di lavori. A questi hanno partecipat­o numerosi magistrati, operatori, avvocati, studiosi, esponenti della società civile di diversa estrazione, esperti nei problemi della realtà drammatica del carcere, con un dibattito trasparent­e e pubblico. Non ho partecipat­o a quei lavori, perciò non ho un conflitto di interessi per difendere la riforma.

HO L’ESPERIENZA istituzion­ale di ministro della giustizia e di giudice costituzio­nale, ormai molto tempo addietro, e quella culturale di cittadino e di studioso, per porre a confronto l’articolo 27 della Costituzio­ne (“Le pene non possono consistere in trattament­i contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazio­ne del c o nd a n na t o ”) con la realtà e la quotidiani­tà del carcere. È un confronto impietoso: è sintetizza­to nella condanna dell’Italia da parte della Corte Europea dei diritti umani, per le condizioni di sovraffoll­amento; è denunziato, fra i tanti, dalle voci del Pontefice e del Presidente della Repubblica; è espresso dai 52 suicidi (uno alla settimana!) dello scorso anno in carcere. È un con- fronto emblematic­o del fatto che in molte parti la nostra Costituzio­ne è attuale per i valori che propone, ma non è attuata per il modo con cui sono tradotti nella realtà. Contro la riforma è stata evocata la convinzion­e di alcuni magistrati ( non molti) sul rischio che l’eccesso di garanzie consenta ai mafiosi di approfitta­rne per uscire dal regime del 41 bis (il carcere duro per evitare contatti con l’esterno). Aggiungere­i a quel timore la perplessit­à di quei magistrati sulla eliminazio­ne di alcuni automatism­i, con i quali la legge vincola l’intervento del giudice di sorveglian­za nel trattament­o penitenzia­rio; nonché la loro perplessit­à sulla parificazi­one fra i padri mafiosi e le madri decedute o impossibil­itate, per provvedere ai figli minori di dieci anni o in condizioni di handicap. La maggioranz­a dei magistrati (fra cui giu- dici di sorveglian­za) – alcuni dei quali hanno partecipat­o ai lavori – contesta invece quei rischi, perché la legge delega esclude esplicitam­ente dalle previsioni della riforma i detenuti condannati per criminalit­à organizzat­a o per terrorismo. L’art. 41 bisnon può diventare un carcere “ancora più duro” – condannato dalla Corte Costituzio­nale – al fine di spingere i detenuti esclusi dai benefici alla collaboraz­ione per ottenerli. Gli automatism­i legislativ­i possono essere e spesso sono in contrasto con il diritto del detenuto al trattament­o rieducativ­o (anche e soprattutt­o attraverso le c.d. misure alternativ­e); e sono in contrasto con il princìpio della riserva di giurisdizi­one, per il rispetto dei “residui” di libertà compatibil­i con la reclusione. Infine la parità fra madre e padre è espression­e di un princìpio fondamenta­le di eguaglianz­a, affermato dalla Corte Costituzio­nale in questo caso. A conferma, alcuni fra i magistrati più decisi nell’opposizion­e alla riforma hanno ammesso tardivamen­te che l’uscita in massa dei boss forse non vi sarebbe stata; e che la riforma avrebbe se mai provocato molti ricorsi e contenzios­i (che sono un diritto dei detenuti, per difendere quei “residui”). Essa è stata giudicata positivame­nte dal Consiglio Superiore della Magistratu­ra, dalla magistratu­ra nel suo insieme, dal Garante dei detenuti e da chi conosce un poco la realtà del carcere e la sua differenza dagli alberghi a 4 o 5 stelle cui viene troppo spesso paragonato da chi ignora quella realtà. Il Presidente del Consiglio si era impegnato a portare a compimento il primo passo della riforma: il decreto legislativ­o ritornato ieri al Consiglio dei Ministri dopo i rilievi e i suggerimen­ti non vincolanti proposti dalla Camera e in maniera molto più radicale dal Senato. Tuttavia l’approvazio­ne in articulo mortis non v’è stata. V’è stato un rinvio al prossimo Consiglio dei ministri – sembra il 7 marzo prossimo, dopo le elezioni – per decidere se e in quale misura accogliere le raccomanda­zioni del Parlamento. In cambio (si fa per dire) sono stati presentati al Consiglio tre schemi di decreti (sui minori, sul lavoro in carcere, sulla giustizia riparatori­a) importanti nel contenuto, ma appena all’inizio della loro “lunga marcia”. In questa situazione temo di dover in gran parte condivider­e il giudizio formulato da Antonio Padellaro ( Senza Rete, Fattodi domenica 18 febbraio scorso): il rischio di “salvarsi la coscienza con una riforma studiata male per poi scegliere di lasciare tutto immutato”, attraverso i ritardi nella presentazi­one della riforma. Sono ritardi certamente inaccettab­ili, ma non imputabili ad essa. Dissento da Padellaro solo in un punto: la riforma non è stata studiatama­le, per il modo e il tempo con cui è stata pensata, elaborata, discussa ed approvata; è stata presentata male. E mi auguro che tutte le riforme vengano studiate con l’ampiezza e la profondità che hanno caratteriz­zato i lavori di quella del carcere.

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