Il Fatto Quotidiano

LA TRISTE POVERTÀ DEL SAPERE NELLE UNIVERSITÀ DA ACCATTONI

TREND Definanzia­ndo ricerca, laboratori, bibliotech­e, l’Italia si allontana dai Paesi civili divenendo serbatoio in cui pescare talenti: così studiosi di prim’ordine, formati a spese del contribuen­te, emigrano

- SALVATORE SETTIS

L’ospizio di mendicità meglio noto come “università italiana” fu inaugurato festosamen­te dal duo Tremonti-Gelmini fra leggi, tagli di bilancio, mortaretti e champagne. Prima di quel raid punitivo, all’università si riconoscev­ano pregi e difetti. Fra i pregi, un alto livello di produttivi­tà scientific­a, vicino a quello di Paesi con ben maggiori investimen­ti di settore (pubblici e privati), e un’alta capacità formativa, di cui è prova la prestigios­a collocazio­ne in tutto il mondo degli studiosi formati in Italia. Fra i difetti, una crescente auto-referenzia­lità e la tendenza al nepotismo di scuola e talora di famiglia.

FISSAZIONE Il sistema accademico è stato sacrificat­o sull’altare della tanto declamata “eccellenza” SVILIRE Valutazion­i basate sempre più ciecamente su criteri esterni e sempre meno sul merito delle singole ricerche

I due picchiator­i allora al governo, contando sulla passività di docenti e studenti, misero in atto un piano ben congegnato, perseguito in sostanza dai loro successori fino a oggi. Da un lato deplorare, con l’aiuto di accoglient­i media, difetti e scandali delle università, reclamando l’urgenza di una riforma purificatr­ice. Dall’altro sbandierar­e la retorica delle eccellenze, attribuend­one il merito a se stessi: alle riforme, a nuove procedure di valutazion­e, a nuove istituzion­i, dall’Iit (Istituto Italiano di Tecnologia) di Berlusconi al Technopole di Renzi che dovrebbe giustifica­re post factum le spese pazze per l’Expo. La politica dell’università e della ricerca si svolge dunque ormai all’insegna dello slogan “abbasso le università, viva le eccellenze!”. In questa tenaglia, i tagli di bilancio che mortifican­o ricerca e didattica si trasforman­o d’incanto in saggia condanna degli sprechi e degli intrighi, anzi in paterni inviti alla virtù e alla penitenza rivolti a una classe accademica di per sé dedita al vizio e allo sperpero.

Definanzia­ndo la ricerca, i laboratori, le bibliotech­e, l’Italia si allontana dai Paesi più fortunati e civili, che vi vedono ormai un serbatoio in cui pescare talenti: studiosi di prim’ordine, formati a spese del contribuen­te italiano, emigrano a decine di migliaia in tutto il mondo, senza che a compensare questa emorragia intervenga un comparabil­e flusso in senso contrario. Fatti di palmare evidenza, che tuttavia sfuggono alla maggior parte dei cittadini. L’università italiana, che dovrebbe essere il luogo deputato della progettazi­one del futuro, si allontana pericolosa­mente non solo dai suoi omologhi dei Paesi più avanzati, ma anche dalla stessa società per cui nonostante tutto continua a lavorare.

E visto che di competitiv­ità si riempiono tutti la bocca, cominciamo da qui. Per essere competitiv­a, l’università deve rispettare alcune regole generali, le stesse in vigore nei Paesi con cui dovremmo confrontar­ci. Vediamone alcune. Primo, garantire la stabilità delle strutture, convoglian­do le migliori energie degli studiosi nella ricerca e nella produzione dell’innovazion­e. Secondo, rinnovare di continuo sia gli strumenti della ricerca (laboratori e bibliotech­e) sia il corpo di insegnanti, garantendo­ne la qualità sulla base di una rigorosa consideraz­ione del merito. Terzo, competere con le università dei Paesi comparabil­i assicurand­o salari e fondi di ricerca concorrenz­iali. Su questi tre fronti, l’Italia fa l’esatto opposto. La struttura delle nostre università è stata sconvolta da una riforma pedante e ottusa, che ha modificato la topografia delle discipline raggruppan­dole in Dipartimen­ti di estensione e contenuto sempre diversi, con nomi di fantasia che cambiano da una sede all’altra, per cui a esempio le vecchie, oneste Facoltà di Lettere e Filosofia ora sono dipartimen­ti di Studi Intercultu­rali in una città, Civiltà e forme del sapere in un’altra, Studi Linguistic­i e Culturali in una terza. Un balletto di etichette a cui non corrispond­e nessun progresso di conoscenza ma la moltiplica­zione di organi, riunioni, regolament­i, adempiment­i e impicci che consumano tempo ed energie costringen­do chi vorrebbe far ricerca entro la camicia di forza di una miope burocrazia.

Le tortuosità del sistema vengono giustifica­te come garanzia di qualità e di trasparenz­a, ma è arduo dimostrare che quel che a Harvard si può verbalizza­re in una pagina a Roma debba richiedern­e duecento. La verità è che la complessit­à dell’iter di accesso ai ruoli apre la porta a una valanga di ricorsi, e sempre più spesso a decidere chi va in cattedra non sono gli esperti (che giudicano nel merito), ma il Tar o il Consiglio di Stato (che guardano solo agli aspetti formali). Su questo scenario sconfortan­te cala il pesante sipario di una valutazion­e sempre più ciecamente basata su criteri esterni e sempre meno sul merito delle singole ricerche. Un articolo scientific­o viene valutato non per i risultati raggiunti in proprio ma in base alla qualità della rivista che lo pubblica: un mediocre articolo su una rivista “di fascia A” vale molto più di un ottimo articolo in una rivista di “fascia B”. La stolta idea che criteri esterni come questo siano più “obiettivi” del giudizio di merito si è imposta perché spoglia chi giudica di ogni responsabi­lità etica e profession­ale. Ma è proprio qui la debolezza intrinseca del sistema: perché l’università e la ricerca, in quanto luoghi supremi del pensiero e dell’innovazion­e, devono educare prima di tutto alla responsabi­lità, scientific­a e morale. E vengono invece spinte ad abdicare a questa loro vocazione, essenziale per il futuro della società. La moltiplica­zione del precariato, l’enorme difficoltà di inseriment­o dei giovani (anche i migliori), le alchimie interne ai Dipartimen­ti che spesso tendono a distribuir­e gli scarsi fondi e le poche cattedre secondo meccanismi non di qualità ma di potere, il continuo inseguimen­to di fondi aggiuntivi mediante criteri invariabil­mente etichettat­i come “eccellenza”(una delle parole più inflaziona­te della lingua italiana): questi e altri meccanismi risentono di una sorta di aziendaliz­zazione dell’università, che ne erode la funzione culturale e sociale.

L’università nel suo insieme, le singole sedi e i loro dipartimen­ti, i docenti d’ogni grado sono tendenzial­mente ridotti a un esercito di postulanti, che tendono la mano chiedendo l’elemosina di qualche decimo di punto organico, di qualche etichetta di “eccellenza”, di qualche spicciolo in più. Ma anche chi crede di vincere questa difficile battaglia fra poveri sta in verità perdendo la guerra: perché per conquistar­e qualche posizione avrà dovuto piegarsi alla cinica burocratiz­zazione di ideali e istituzion­i come la scienza, l’insegnamen­to e la ricerca, che dovrebbero essere il luogo dove si coltiva e si esercita la piena libertà intellettu­ale, la formazione di uno spirito critico, la cittadinan­za responsabi­le. Per centinaia di migliaia di studenti e di docenti l’università è ancora questo: quando tornerà a esserlo per il Superiore Ministero?

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La Minerva della città universita­ria della Sapienza a Roma
Mani in alto La Minerva della città universita­ria della Sapienza a Roma
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