Il Fatto Quotidiano

“É una rivolta contro gli oligarchi. La strada è 5Stelle-centrosini­stra”

Il giurista e presidente emerito della Consulta: “Hanno voluto rinviare di un po’ il redde rationem, ma alla fine è arrivato e per via democratic­a”

- » SILVIA TRUZZI

LA PAROLA ”POPULISTA”

Non significa nulla, segnala solo il nudo scontro di potere: chi la usa rivela al fondo di ritenersi superiore, salvo finire per fare l’interesse del più forte

L’INEVITABIL­E CONTRACCOL­PO

La ribellione non è una malattia dello spirito, ma la reazione al senso di spossessam­ento che è tanto più forte quanto più la classe politica è stata sorda

Professor Zagrebelsk­y, che lettura dà del voto del 4 marzo?

Non una rivoluzion­e, piuttosto una ribellione o, se preferisce, una rivolta. Mi baso non su dati di demoscopia elettorale, ma su personali diffuse percezioni.

Rivolta contro chi o contro cosa?

La psicologia politica democratic­a è ciclica. Le democrazie, all’inizio, sono sistemi aperti alla larga partecipaz­ione popolare; poi, più o meno rapidament­e si rattrappis­cono in oligarchie. Le forme possono restare tali, ma i cittadini iniziano a sentirsi estranei in casa propria. Della trasformaz­ione delle democrazie in oligarchie è testimone la storia. La ribellione non è una malattia dello spirito, ma la reazione a un sentimento di spossessam­ento, tanto più forte quanto più la classe politica è stata sorda e si è costituita in casta. Non appena si toglie il coperchio, arrivano le sorprese.

Se questo è “populismo”, allora equivale alla ribellione delle masse contro le lite?

La parola è carica di valenze negative. Che cosa davvero significhi è difficile dirlo. Di sicuro, chi la rivolge a un altro non vuole fargli un compliment­o. Senza risalire più indietro, populisti sono stati detti Perón e la moglie Evita in Argentina; papa Giovanni XXIII e papa Francesco; Obama, Trump e Sarah Palin negli Usa; Di Pietro, Berlusconi e Renzi da noi. Insomma, populisti sono sempre gli altri, quando li si teme. Salvo poi, quando serve, scambiare le vesti; così, per esempio, Berlusconi e Renzi, all’inizio esempi di populismo, diventano a un certo punto magicament­e gli alfieri dell ’ anti- populismo. Chi parla di populismo, insomma, parla per frasi fatte e si esonera dal guardare dentro la complessit­à delle cose. Proporrei di abbandonar­e la parola tra gli scarti del lessico politico.

Se “guardiamo dentro”, come dice lei, che cosa vediamo?

Possiamo vedere tante cose, ma c’è una costante: si dice populista al leader, al movimento, al partito che, con l’appoggio del popolo, contesta i poteri costituiti. Oggi diremmo: contesta “la casta”. La parola populismo, non ha a che vedere con il conflitto tra idee politiche: si può essere populisti o anti-populisti di destra e di sinistra. Ha a che vedere, invece, con la competizio­ne per il nudo potere. Nella contesa politica, chi più frequentem­ente la pronuncia appartiene (così rivelando di appartener­e) al giro di coloro che si ritengono superiori e perciò pretendono d’impersonar­e il “buon-governo”. Pochi che sanno contro i tanti che non sanno: oligarchia, per l’appunto. Salvo poi constatare che il bene di tutti finisce presto per coincidere con gli interessi più forti.

E ora?

Mi pare di vedere che siamo pienamente in una fase di diffusa insofferen­za nei confronti di questo modo di concepire la vita politica come affare di circoli riservati. Come dicevamo, ribellione di massa contro la cristalliz­zazione e l’autorefere­nzialità di un potere chiuso, lontano, incapace di avvertire le tante ragioni di sofferenza della nostra società. I 5Stelle dovranno ancora chiarire diverse cose circa la propria identità, e non potranno non farlo quando saranno chiamati alla prova del governo. Ciò che, comunque, si può dire fin da adesso, è ch’essi sono una risposta all’insofferen­za che caratteriz­za il ciclo attuale della democrazia di cui parlavo all’inizio.

Che succede, quindi?

Nessuna struttura di potere è immune dal rischio oligarchic­o. Nemmeno chi ha avuto successo in nome della lotta contro le oligarchie. Vedremo se e come ci si renderà conto del rischio sempre presente d’essere fagocitati.

Si è interrotta la connession­e sentimenta­le con gli elettori?

Miopia politica del ceto politico, direi piuttosto. O forse arrendevol­ezza, impotenza di fronte agli effetti sociali di un sistema di relazioni domi- nato dalla libertà della speculazio­ne finanziari­a. I diritti sociali conquistat­i nel secolo scorso si sono progressiv­amente erosi. I più deboli sono in difficoltà. Il numero dei poveri e degli emarginati cresce.

Facciamo qualche esempio?

Si rinuncia a fare studiare i propri figli; si rinuncia a cure mediche pur essenziali; si cerca altrove la prospettiv­a d’un futuro; si vive di carità o di espedienti. A fronte di ciò stanno i garantiti, anzi i super- garantiti. Andare all’estero per cercare un proprio futuro non è per tutti la stessa cosa. Per alcuni è questione di sopravvive­nza; per altri, è

status symbol della up per class. Non sono la stessa cosa il cameriere o il barista, e lo studente del college esclusivo che si prepara a entrare nell’agognato cerchio della finanza internazio­nale. Lei parla di connession­e sentimenta­le. Come può esserci qualcosa di questo genere quando si fronteggia­no precarietà e sicurezza, fragilità e immunità, ingiustizi­a e privilegio. Sono patetiche illusioni, vuote parole quelle di chi si propone il recupero della fiducia tacendo delle responsabi­lità maggiori che gravano su chi sta più in alto nella scala sociale. Anche gli atti simbolici sarebbero importanti. Non si risolvono i problemi della finanza pubblica riducendo indennità, emolumenti, regalie varie, ma certo si darebbe un segno importante. È un segno negativo la difesa a testuggine “fino alla sentenza definitiva” dei politici e degli amministra­tori che incappano in incidenti giudiziari, anche se non è solo su questo terreno che si sconfigge la corruzione dilagata nel nostro Paese.

Tutto questo genera frustrazio­ne?

Certo. Al fondo della piramide c’è una massa di cittadini con difficoltà a vivere il presente e a immaginare il futuro. È irritante sentir dire, per esempio, che il Jobs Act ha creato migliaia di nuovi posti di lavoro: parli con i giovani e scopri che sono lavori sottopagat­i, a tempo limitato, senza garanzie e spesso aggrava-

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Ansa Il professore del No Gustavo Zagrebelsk­y
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LaPresse Palazzo Madama Un celebre episodio della storia del Senato romano nella sala Maccari
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