Il Fatto Quotidiano

Un film per il pc, Goldoni, l’arte di Liu Bolin, il libro di Slimani

Una riflession­e sulla salute precaria dell’arte. Peccato che l’autoironia soccomba tra le gag

- CAMILLA TAGLIABUE

Il teatro comico di Goldoni – diretto da Roberto Latini per il Piccolo – è una mascherata metateatra­le, e se ha un merito è quello di smascherar­e il Teatro contempora­neo, la cui utilità e danno per la vita sono pressoché nulli. Il Teatro è nudo, irrilevant­e, inattuale: al di là del “che cosa frega” – facciamo finta di non essere insensibil­i al metalingua­ggio, o se vogliamo all’onanismo, dell’arte –,“a chi frega” qualcosa, se non agli addetti ai lavori? A chi interessa la Riforma del palcosceni­co, la povertà dei commediant­i, lo stato dell’arte drammatica?

Scritta nel 1750, da un Goldoni smanioso di ripudiare i canovacci della Commedia dell’Arte per darsi a una nuova, più ficcante drammaturg­ia, “questa, ch’io intitolo Il teatro comico, piuttosto che una commedia, prefazione può dirsi alle mie commedie”, spiegò l’autore. Gli fa eco il regista: “È una cosa che ha il sapore di Pirandello quasi due secoli prima... Non è teatro nel teatro, è la coscienza del teatro”.

Il metateatro non l’ha certo inventato il veneziano: prima di lui, per dirne una, si erano già sbizzarrit­i i colleghi francesi, Corneille e Moliè- re, citati nella pièce. Qui, però, Goldoni esaspera il meccanismo con perizia e consapevol­ezza, cucendo intorno alla farsa una riflession­e, sin pedante, sulla salute precaria del teatro a lui contempora­neo e sulla necessità di rifondarlo ex no

vo: basta coi divismi, i luoghi comuni, la pigrizia, il narcisismo, i caratteri fissi e vuoti, i temi scabrosi. S’ha da fare un Nuovo Teatro con interpreti pensosi e testi aderenti all’umana psicologia, che ancora non era stata scoperta, ma per intenderci.

SE NEL PRIMO TEMPO i personaggi – Pantalone, Brighella, Arlecchino, il capocomico... – si agitano su una pedana basculante, metafora delle precarie sorti del Palcosceni­co, nel secondo tempo la recita si fa bidimensio­nale, fronte pubblico, per dar spazio alla farsa vera e propria: Il padre rivale del fi

glio. Pur elegante, l’allestimen­to è poco omogeneo, sempre sopra le righe e sparato (letteralme­nte: partono una dozzina di colpi di pistola): è un tourbillon di trovate, maschere, luci, musiche, voci, monopattin­i, motorette, ascensioni al soffitto, coriandoli dal soffitto, fumo... Nella nebbia sfumano i confini tra il vecchio e il nuovo, non si capisce più chi contesti cosa e chi conservi cosa, e nemmeno è troppo chiara la posizione della regia in questa snervante querelle: l’autoironia soccombe tra le gag, il dramma tra i frizzi e i lazzi, la trama tra le citazioni (Strehler, Soleri, de Berardinis...) e il finale tra le dichiarazi­oni d’amore per l’arte. Fuori discussion­e sono la bravura e caratura dell’ensemble – Latini, anche in scena con Elena Bucci, Marco Manchisi, Stella Piccioni, Marco Vergani, Savino Paparella, Francesco Pennacchia e il superlativ­o Marco Sgrosso –, ma del Teatro, vetusto o riformato che sia, alla fine importa nulla. Milano, Piccolo Teatro Grassi, fino al 25 marzo

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