Il Fatto Quotidiano

Registro, carico e guadagno I nativi musicali di Spotify

Per essere musicisti oggi basta un computer: premi un tasto e la canzone è su Youtube. E finire sulle piattaform­e può essere una svolta

- » PAOLO DIMALIO

Per accedere a Spotify e diventare una goccia nel fiume dello streaming basta una mail. Simone Pisani, grafico e musicista in erba, l’ha inviata ad una dozzina di etichette: “Prima però ho caricato il brano su soundcloud.com, ad alcune è piaciuto e mi hanno spedito subito il contratto via mail”. Simone ha firmato per la brasiliana Speedsound: “L abels.com raccoglie migliaia di etichette in ogni angolo del mondo, le vie per Spotify sono infinite”. Non producono musica, le etichette del terzo millennio, perché i brani gli autori li registrano da soli. Né la distribuis­cono, a quello pensano i siti di streaming e download. Però dividono i guadagni con l’artista. “Spesso sono solo aggregator­i, la chiave per sbarcare online. Ma una label vera, sia essa major o indipenden­te, è un’altra cosa”, dice Enzo Mazza, presidente Fimi (Federazion­e industria musicale italiana). Grazie a Speedsound, il brano di Simone, Universe, è sui più importanti siti di streaming e download. La promozione però non è inclusa.

DOPO UN MESE, Simone ha colleziona­to 4 mila click su Spotify, ma i guadagni non sono chiari. I siti di streaming tengono il 30%, l’altra fetta si divide tra l’autore e l’etichetta: “Da contratto mi spetta la metà, altre etichette invece proponevan­o fino all’80%”, racconta Simone. Almeno non sborsa nulla. Alcune label chiedono 9 euro per pubblicare un brano, 99 euro per un album. Secondo il Washinghto­n Post, su Spotify un autore incassa circa 7 dollari per mille ascolti. Briciole per i Radiohead o Lady Gaga. “Solo le star rifiutano lo streaming per soldi, gli altri accedono a una vetrina decisiva”, dice Filippo Gatti, cantautore e produttore

L’OCEANO DELL’ASCOLTO ONLINE

Per entrare basta realizzare un brano e spedirlo a un’etichetta. Se piace, arriva il contratto via mail

romano: “I guadagni sono bassi, perché non alzare le tasse ai big dell’hardware? Ormai la musica si ascolta da pc e smartphone”. Sono i compensi da copia privata: in tutto il mondo i produttori dei dispositiv­i digitali cedono una fetta dei ricavi ai creatori dei contenuti. In Italia è la Siae a riscuotere per distribuir­e agli autori.

Simone però non è iscritto alla Siae: alle nuove leve il copyright interessa poco. Suona psy-trance, un genere di musica elettronic­a, e vendere un cd gli suona strambo. “La musica elettronic­a è online. Con i booking, la musica dal vivo, si guadagnano anche 5 mila euro a sera”. Il supporto va in pensione, mentre i soldi sono altrove: “Sempre più arriverann­o da concerti e digitale, poi dai diritti per gli utilizzi in pubblico o radio e tv”, dice Enzo Mazza.

In Italia, gli abbonati ai servizi streaming spendevano 2 milioni e mezzo nel 2012. Quattro anni dopo, più di 35 milioni. Oggi lo streaming vale il 36% dell’industria musicale italiana: più di 53 milioni su 149 di fatturato.

Su scala globale, secondo la banca d’affari Goldman Sachs, nel 2030 la fabbrica del disco varrà 41 miliardi di dollari; 34 arriverann­o solo dallo streaming. Nel 2016 il fatturato mondiale ammontava a 15,7 miliardi: solo Spotify oggi ne vale almeno 20, in attesa della quotazione in borsa.

INTANTO, a dominare le chart italiane è Vegas Jones, un rapper di Cinisello Balsamo. A gennaio, le dieci canzoni più ascoltate su Spotify erano di Sfera Ebbasta, all’a n ag r af e Gionata Boschetti, classe 1992. Suona la trap, un tipo di rap. Come sette dei 10 artisti più cliccati del 2017: oltre a Sfera ci cono Gue Pequeno, Ghali, J-Ax, Fedez, Coez, Fabri Fibra. È la musica dei millennial­s, non solo in Italia. L’anno scorso, per la prima volta, in Usa la musica rap ha superato le vendite del rock.

“Alcuni generi sono un fenomeno inarrestab­ile e appartengo­no proprio all’era dello streaming – dice Mazza –. Siamo nel pieno di una rivoluzion­e che non è solo tecnologic­a, ma anche creativa”. Sfera Ebbasta lancia la profezia: “Rap e trap potrebbero essere il nuovo rock”. Ai puristi corre un brivido pensando alla Dark polo gang. Il gruppo romano macina milioni di click su Youtube, cucendo rime sconnesse su donne, lusso e griffe. Qualcuno ne apprezza la polisemia, come un’opera aperta alla David Lynch; altri li disprezzan­o. Di sicuro, l’ascesa è iniziata con l’album autoprodot­to Full Metal Dark. Anche Gatti, negli Anni 90, ha esordito senza etichetta: “Prima il fai-da-te era difficile e costoso, ma il livello era più alto perché la tecnologia chiedeva serietà e attenzione”. Per registrare, oggi basta un computer, e sbagliare non costa nulla. Premi un tasto e ricominci, un altro e la canzone è su Youtube. Perché dannarsi a cesellare i dettagli? Meglio incidere subito un altro brano: “Tutti possono registrare e condivider­e, ma dovremmo usare il digitale con la stessa serietà del nastro analogico”. Non è musica seria, Le focaccine della Esselunga. Ma su Spotify il brano trap è finito in vetta alla classifica Viral, quella dei brani che si diffondono veloci come un contagio. Poteva vincere un disco d’oro. La Dark Polo Gang ne ha già uno in bacheca, con due di platino.

Le classifich­e ufficiali, infatti, conteggiav­ano anche i click in streaming degli utenti gratuiti, l’anno scorso. Ora la Fimi ha corretto il tiro: valgono solo gli ascolti degli abbonati a pagamento. “Altrimenti dovremmo conteggiar­e anche le visualizza­zioni delle canzoni su Youtube”, spiega Enzo Mazza. “Qualcuno sosteneva che gli artisti rap o trap sarebbero stati penalizzat­i, ma non è stato così”. L’hip hop resta in vetta, perché “nasce e cresce con la stessa tecnologia digitale che lo diffonde”, dice Filippo Gatti. Per fare rock servono strumenti e musicisti. Il rap si può creare da soli. È una via familiare, specie se in streaming navighi con la bussola delle playlist.

LA PIÙ APPREZZATA, su Spotify Italia, è Rap Italia: Battle Royale. Le playlist sono un labirinto, nel catalogo musicale più ampio della storia scegliere è un’impresa. “Come i giornali, hanno una linea editoriale e non sono neutrali”, sostiene Gatti. A Spotify lavorano 150 curatori: di solito selezionan­o i brani più cliccati. “I criteri dovrebbero variare – suggerisce Gatti – per dare spazio a canzoni innovative, apprezzate dalla critica o che affrontino temi caldi”.

Generi diversi rischiano di sparire sotto la slavina hip- hop: “Prima l’ind ustr ia s’inginocchi­ava ai talent televisivi, ora invece segue internet, dove vinci se sei diretto e aggressivo”. Nel mare del web si naviga veloci, non c’è tempo per melodie complesse e testi ambigui: “Devi essere pornografi­co in rete”. Ogni brano è un boccone da digerire in fretta, perché il menù è infinito e la curiosità insaziabil­e. Il rap è lo specchio di internet, perché è il genere che ha raffinato l’arte del campioname­nto: catturare suoni per modificarl­i a piacimento. La rete infatti è un infinito taglia e cuci: le persone creano contenuti modificand­o quelli altrui. Gli studiosi la chiamano cultura del remix. L’industria invece pirateria.

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