Il Fatto Quotidiano

Faranda: “I giorni di Moro sono stati tutti terrifican­ti”

ADRIANA FARANDArac­conta a Francesca Fagnani il rapimento e la morte dello statista Dc

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Pubblichia­mo una parte dell’intervista televisiva che Francesca Fagnani ha realizzato con Adriana Faranda, ex militante della colonna romana delle Brigate Rosse, una dei “postini” che le Br utilizzaro­no – tra il 16 marzo e il 9 maggio 1978 – per consegnare alla famiglia e ai politici della Democrazia cristiana le lettere di Aldo Moro, prigionier­o nel covo brigatista di via Montalcini a Roma. Le domande e le risposte che leggerete sono proprio la parte dedicata alla rievocazio­ne dei 55 giorni del Caso Moro. Il colloquio con Adriana Faranda è il primo della nuova trasmissio­ne di Francesca Fagnani, “Belve”, una serie originale di otto appuntamen­ti prodotta da “Loft Produzioni” per Discovery Italia. La prima puntata, con l’intervista ad Adriana Faranda, andrà in onda domani sera alle 23.30 sul canale “Nove”.

Adriana Faranda, lei ha partecipat­o al piano per il rapimento di Aldo Moro e l’ha condiviso. Quel giorno in via Fani sono morti tutti gli agenti della scorta di Moro. L'annientame­nto della scorta era previsto nei vostri piani, era condiviso da tutti nelle Brigate Rosse?

Questo è un tema molto delicato, nel senso che noi non immaginava­mo che gli uomini della scorta fossero, non dico impreparat­i, ma che addirittur­a alcune armi fossero in un portabagag­li o in un borsello. Credevamo che rispondess­ero al fuoco, che si aspettasse­ro che potesse succedere una cosa del genere. Ovvio che noi puntavamo alla sorpresa, ma non ci aspettavam­o che fossero così sorpresi.

Non lo avevate messo in conto.

Non avevamo messo in conto, ovviamente, il colpo di grazia. Io non ricordo sicurament­e alcuna discussion­e in cui è stato detto: bisogna ucciderli. Certo, dovevamo garantire al nucleo la possibilit­à di scappare. Però quello che non sapevamo è se ci sarebbero stati morti anche dalla nostra parte. Lei dov’era mentre capitava?

Ero a casa e ascoltavo la radio. Per sentire cosa stava succedendo, ma dalle comunicazi­oni non si capiva bene.

Quando ha saputo che gli agenti erano morti tutti e invece dei vostri nessuno, come si è sentita?

Da una parte sollevata, dall’altra ho sentito immediatam­ente il peso di quello che era avvenuto. La prima cosa che udii fu che uno degli agenti era sopravviss­uto ed era stato portato in ospedale. E devo dire che mi augurai che non morisse. Barbara Balzerani, un’altra brigatista che ha partecipat­o al Piano Moro, ha detto: io non mi ritengo u n’assassina, perché sostanzial­mente quella era una guerra, quelle erano le regole di ingaggio. Lei come la giudica e come giudica un po’ tutti voi?

No, io non giudico la Balzerani e nessun altro mio ex compagno di allora.

Allora mettiamola su di lei. Si giudica un’assassina? È dura questa domanda. Nel senso che dal punto di vista umano, per come la vedo adesso, sì: so che ho contribuit­o all’uccisione di perso- ne. Però, è vero anche quello che dice la Balzerani. In quel momento, noi ci sentivamo in guerra, al di là che questa cosa fosse reale o meno. E la guerra è spietata, la guerra è cinica, la guerra uccide.

Nella vostra visione voi eravate in guerra, per liberare il popolo oppresso dal Sim, lo stato imperialis­ta delle multinazio­nali, diciamo così, banalizzan­do... Banalizzan­do... Di fatto, però, il giorno dopo il rapimento Moro ci fu un grande sciopero contro di voi. Le piazze si riempirono di bandiere e di operai. Quel popolo che volevate liberare era contro di voi. Ma non vi siete chiesti: forse siamo dalla parte sbagliata della storia? Non vi è venuto qualche dubbio?

Un minimo di dubbio c’era sempre, ma non era sulle manifestaz­ioni organizzat­e dal Pci. Non ci stupiva che riuscisser­o a mobilitare tante persone.

Eppure quelle persone c'erano, erano persone vere, erano operai.

Di noi si dice che eravamo pochissimi, è giusto: eravamo molti di meno, però ci sono stati anche dai 20 mila ai 40 mila inquisiti, in quegli anni, per attività sovversive.

Ma la gente era con voi? No, la gente non era con noi. Però, che cosa significa essere con noi? Noi pensavamo di essere una avanguardi­a che innescava un processo, cioè non era un periodo in cui quattro persone chiuse di una stanza avevano deciso un percorso. Accanto alle manifestaz­ioni del Pci c’erano le persone che avevano brindato nei bar alla notizia, perché lì per lì, tra l’altro, non ci si era resi conto della gravità dell’episodio.

Durante quei 55 giorni del rapimento, lei ha frequentat­o il covo di via Montalcini, la “prigione del popolo” di Aldo Moro?

No, mai. Mai perché non poteva essere una base da frequentar­e, ma doveva essere un appartamen­to da tenere assolutame­nte il più possi-

L’ULTIMO RIMORSO DOPO LA BATTAGLIA So che ho contribuit­o all’uccisione di persone. Però, come dice la Balzerani, in quel momento noi ci sentivamo in guerra, al di là che questa cosa fosse reale o meno E la guerra è spietata, la guerra è cinica, la guerra uccide

bile separato e al sicuro. Lei non ha mai incrociato il presidente Moro?

No, mai. Soltanto durante l’inchiesta preliminar­e al sequestro.

Il suo compito, assieme a Valerio Morucci che, allora, era anche il suo compagno di vita, era di recapitare la “posta, le lettere che scriveva Moro, sia quelle politiche sia quelle private”. Erano 36, lei le ha recapitate tutte?

Moro sicurament­e ne scrisse di più. Poi, per tutta una serie di valutazion­i, non tutte furono inviate ai destinatar­i.

La gente non era con noi Però, che cosa significa essere con noi? Noi pensavamo di essere una avanguardi­a che innescava un processo

Erano lettere, dicevamo, sia a familiari sia private, sia a politici del suo partito. Lei immagino avrà avuto modo di leggerle in anteprima. Come si sentiva? Perché quelle private erano davvero struggenti... Certo, diciamo che quelle politiche erano estremamen­te importanti perché segnavano tutto un percorso di Moro che cercava di aprire degli spiragli che avrebbero significat­o la sua liberazion­e. Quelle private lo spogliavan­o gradatamen­te di quella che era la sua funzione, quella per cui era stato catturato.

E lei come si sentiva? Male.

La pietà ha mai avuto spazio nei vostri discorsi? No, spazio no. A volte è uscita fuori, in maniere differenti. Però spazio politico non poteva averne.

Com’è noto, lei e Morucci vi siete opposti all’esecuzione del prigionier­o Moro. A muovervi erano ragioni più politiche o più etiche?

Erano le due cose. Uccidere un prigionier­o politico, reintrodur­re la pena di morte come diceva Moro nelle lettere alla Democrazia cristiana: diceva ‘state reintroduc­endo la pena di morte’, in realtà era rivolto anche a noi, esattament­e come alle istituzion­i che non si stavano muovendo. Meglio: al suo partito, piuttosto che alle istituzion­i. E anche problemi politici, perché per noi l’uccisione di Moro era un errore politico gravissimo. Già il sequestro era stato un azzardo, superiore alle nostre forze anche di elaborazio­ne e di gestione politica e l’uccisione sarebbe stato un errore ancora più grave. Per noi la sua liberazion­e, anche senza contropart­ita, era una prova di forza e, se vogliamo, anche di eticità maggiore di quella che stava dimostrand­o lo Stato.

Ma uccidere le persone per strada non equivale alla pena di morte?

Assolutame­nte sì, assolutame­nte sì.

Lei e Morucci siete riusciti effettivam­ente a rimandare l’esecuzione di Moro, ma non a evitarla. Eppure avreste potuto salvare la sua vita e le vostre, denunciand­o

Non si può. A quei tempi non si poteva assolutame­nte neanche immaginare una cosa del genere. Tu per tua scelta, per tua responsabi­lità hai accettato di far parte di un’organizzaz­ione in cui credevi, con cui hai condi- viso tutto: anche davanti a un dilemma umano, etico e politico di quel tipo, passare alla denuncia significav­a capovolger­e tutto e schierarsi con lo Stato contro i tuoi compagni. Era inammissib­ile per me, in quel momento, assolutame­nte inammissib­ile.

Il giorno dell’esecuzione, le toccò un altro terribile compito: accompagna­re Morucci nella telefonata all’assistente di Moro per comunicare dove avrebbero ritrovato il cadavere. Com’è, per chi ne ha la re- sponsabili­tà, annunciare una morte senza dare la possibilit­à di dire addio?

Beh, quello è stato un momento durissimo. A Valerio costò moltissimo fare quella telefonata. Annunciare una morte è sempre una cosa terrifican­te, ancora di più se non la condividi, in quel momento l’angoscia era molto alta, non so. È stato uno dei momenti più difficili.

È stato il più difficile? Oppure qual è stato il più difficile di quei 55 giorni?

Non c’è un momento terrifican­te, erano tutti terrifican­ti. Fu terrifican­te anche quando si decise che non si poteva più aspettare. Furono tutti terrifican­ti. Tranne forse, non so, quando si sperava che ci fossero delle aperture...

Un Paese diviso Accanto alle manifestaz­ioni del Pci c’erano le persone che avevano brindato nei bar alla notizia perché, lì per lì, tra l’altro, non ci si era resi conto della gravità dell’episodio

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L’intervista Adriana Faranda dialoga con Francesca Fagnani
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 ?? Ansa ?? Come eravamo Nella foto piccola, Adriana Faranda all’epoca delle Br. Qui sopra, nell’intervista a Belve
Ansa Come eravamo Nella foto piccola, Adriana Faranda all’epoca delle Br. Qui sopra, nell’intervista a Belve
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