Il Fatto Quotidiano

“L’Italia era la patria del lusso. Poi ho visto le vostre case”

Torna in libreria il racconto dell’unica intervista che Ingvard Kamprad, morto in gennaio, abbia mai dato a un italiano

- » NANNI DELBECCHI

Dopo la morte di Ingvar Kamprad, scomparso il 27 gennaio scorso, Marsilio ripubblica Il signor Ikea di Nanni Delbecchi, reportage dal Nord scandinavo sulle tracce del fondatore dell’Ikea (uscito per la prima volta nel 2007), in cui è presente l’unica intervista concessa da Kamprad a un giornalist­a italiano. Eccone un’anticipazi­one.

Dunque il signor Ikea esisteva; altrimenti non ce l’avrei avuto davanti. “Ci tenevo a incontrarl­a in mezzo ai p r od o t ti ”, disse tendendomi la mano sulla soglia del terzo piano, dove ci aspettava di vedetta. La sagoma intravista in controluce nel tramonto di Tällberg, e poi osservata nelle fotografie dell’Ikeamuseet durante 50 anni di imprese commercial­i, aveva preso vita.

Alto, dritto, un viso largo e austero da pastore protestant­e, gli occhi azzurri al riparo di un paio di grossi occhiali quadrati, dimostrava meno dei suoi quasi ottant’anni – segno che il lavoro a volte conserva meglio dell’ozio.

Un tipo dall’aria non così leggendari­a, a prima vista; a meno che la leggenda non si nascondess­e nell’aspetto dimesso, nella polo turchese, nei pantaloni di velluto con il cavallo basso, nelle polacchett­e di camoscio. E nella sacca di tela grezza che effettivam­ente portava a tracolla, proprio come mi aveva detto Marie Consuelo. Non era solo ma lo capii soltanto qualche istante dopo, quando un signore ancora più alto di lui e circa della stessa età mi presentò la mano a sua volta.

“Lui è mister Årno Aldunssen” fece le presentazi­oni il signor Ikea, senza aggiungere altro al nudo nome e cognome. “Qui al terzo piano abbiamo lo showroom con l’assortimen­to completo dei nostri mobili. Prego, scelga lei dove vuole che ci mettiamo”. Mi fece passare davanti, in modo che fossi io a fare strada, e tutti e tre ci incamminam­mo fra tinelli, camerette per bambini, angoli cottura e “le recentissi­me soluzioni per l’ufficio in casa”, come tenne a specificar­e. Ero un po’ in imbarazzo e girammo a lungo prima di accomodarc­i in un divano a tre posti foderato di lino giallo, di nome Karlanda. Scelta forse un po’ scontata, ma comoda. Azionai il registrato­re ed estrassi il taccuino in cui avevo annotato le mie domande. Ma un attimo prima che potessi partire, lui mi anticipò.

“È la prima volta che incontro un giornalist­a italiano, e ne sono davvero felice. Sa, l’Italia è stata molto importante nella mia vita. Pensi che mia moglie l’ho incontrata a Capri, negli anni 60. Entrambi stavamo visitando villa San Michele; ci siamo conosciuti lì, e non potevo chiedere un inizio più romantico al mio matrimonio”.

“L’Italia è un ottimo posto per in namo rars i” dissi. “Ne sono convinto”, convenne il signor Ikea, “ma l’Italia è stata importanti­ssima anche per il mio lavoro. E in quel caso la città decisiva fu Milano”.

“Da vv er o? ”, dissi sorpreso. Milano non me l’aspettavo.

“È la pura verità” disse il signor Ikea e anche Aldunssen, che era seduto all’altro capo del divano, parve annuire.

“Avevo appena inserito i primi mobili nel mio catalogo di vendite per corrispond­enza, ma an- cora non mi ero deciso a produrli...”.

“Come mai?”.

“Perché l’investimen­to era molto rischioso. Un passo delicato, tutto da verificare. Così mi sono messo a girare il mondo per visitare i saloni specializz­ati, e quello che mi colpì di gran lunga di più fu la Fiera campionari­a di Milano, all’inizio degli anni Cinquanta”.

“I favolosi anni Cinquanta...”. “Anni decisivi per il design. Alla Fiera di Milano c’erano esposti solo mobili molto belli, firmati da architetti di grido come Sottsass, Zanuso, Magistrett­i... Ma di conseguenz­a, erano anche terribilme­nte dispendios­i. Si capiva al volo che per le persone normali non potevano andare bene”.

“Eh, già. Quand’ero ragazzo, in Italia i mobili di design erano considerat­i un lusso per eccentrici. Averne uno era come mettersi in casa un animale esotico...”.

“Allora era così in tutto il mondo. Anche qui in Svezia, e anche in Norvegia, vero Årno?”.

Chiamato in causa, il gigante si sporse in avanti e fece di sì con la testa. “In più, voi italiani avete un debole speciale per le firme, e con il lusso ci sapete fare. I designer milanesi degli anni Cinquanta erano davvero degli assi. Ma lei li conoscerà di sicuro meglio di me!”. Annuii con aria compresa. Considerat­a la mia scarsa preparazio­ne, non potevo permetterm­i di più. “Poi, però, viaggiando ancora, sono diventato amico di qualche italiano, sono entrato nelle vostre case, e ho visto con i miei occhi quello che c’era realmente nelle abitazioni della gente. Insomma, ho visto che tra i mobili che erano nelle case e quelli che venivano esposti nelle fiere c’era un abisso...”. Da dietro le lenti rettangola­ri, gli occhi mandarono un lampo azzurro.

“E in fondo, cos’è un abisso?” mi sono detto... Tacque, aspettando una risposta che non arrivò. “È un grande spazio di mercato da occupare”.

C’era un abisso rispetto ai mobili nelle fiere: e cos’è un abisso se non uno spazio di mercato da occupare?

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