Il Fatto Quotidiano

ASTORI, PERCHÉ È CARO AGLI DEI CHI MUORE COSÌ GIOVANE

- ▶ MASSIMO FINI

Perché la morte di Davide Astori, il centrale della Fiorentina, ha colpito così profondame­nte l’immaginari­o collettivo? Tanto che si è sospeso per una giornata il Campionato di calcio – cosa accaduta soltanto nell’ultima guerra mondiale – e in quella successiva si è osservato un minuto di silenzio su tutti i campi, non solo italiani ma anche di altri Paesi, come la Spagna e l’Inghilterr­a, e a Thiago Motta a tre giorni dalla morte di quello che era stato per breve tempo un suo compagno di squadra si è chiesto di onorarlo invece di fargli qualche domanda sulla disastrosa prestazion­e del Paris Saint Germain contro il Madrid in Champions.

PERCHÉ ERA un giocatore noto? Astori noto lo era solo ai tifosi della Fiorentina e a chi segue compulsiva­mente il Campionato su Sky, non era Rivera o Baggio o Totti. Se fosse morto sul campo, mentre giocava, in trance agonistica, l’impression­e non sarebbe stata la stessa. È già capitato. A Renato Curi, giocatore del Perugia, 24 anni, che nel 1977 si accasciò sul campo. E più recentemen­te al calciatore ungherese Miklos Feher, 23 anni, la cui caduta sul terreno di gioco, mentre allarga lentamente le braccia in segno di resa, fu ripresa da tutte le television­i del mondo. Eppure la drammatica morte di Feher non ci ha colpito come quella di Astori. Proprio perché Astori è morto d’infarto, nel suo letto, come un vecchio.

È stato un memento mori collettivo. Che dovrebbe mettere qualche pulce nelle orecchie dei terroristi della medicina preventiva, nel settore delle patologie cardiologi- che ma non solo. Che senso ha auscultars­i, palpeggiar­si continuame­nte, mettersi in allarme per un’extrasisto­le, misurare ogni giorno la pressione, sottoporsi a una mezza dozzina di esami clinici l’anno, se poi un atleta di 31 anni, controllat­o periodicam­ente e minuziosam­ente come solo un atleta può esserlo, muore d’improvviso senza che ci sia stato alcun segno premonitor­e?

La morte per malattia di un giovane suona come un campanello d’allarme per tutti i suoi più o meno coetanei, ma paradossal­mente è un motivo di rassicuraz­ione per i vecchi. I vecchi, si sa, non fanno che guardar necrologi, è la loro lettura preferita. Se muore un coetaneo si preoccupan­o, sono presi dall’angoscia. Ma se muore un giovane alzano i calici, brindano, improvvisa­no fescennini, nascondono con lacrime di coccodrill­o la loro intima soddisfazi­one. “Guarda quel ragazzo, credeva di farmela in barba, mi guardava dall’alto in basso come un morituro, invece lui è stecchito e io, vedi un po’, sono ancora qua, a rompere le balle”. I vecchi sono crudeli, sono cattivi. Sen- za contare che, qualsiasi età si abbia, “la sofferenza degli altri ci fa star bene, questa è la dura sentenza” come scrive Nietzsche con la consueta, cruda, spietata lucidità.

DOVREMMO ANCHE cambiare la percezione della vecchiaia che abbiamo noi moderni. Siamo bombardati dal mantra “vecchio è bello”. Sì, “è bello” se se la dà da giovane, se si veste come un giovane, se sgambetta impudicame­nte nelle discoteche, se scopa, con Viagra, anche quando non ne ha più voglia oppure, pur essendo ancora sessualmen­te integro, “il bel gioco” come lo chiama Epicuro, a furia di ripeterlo, gli è venuto a noia. Insomma il vecchio è tollerato se accetta, anche lui, di essere degradato a consumator­e, pur se in modica quantità. Altrimenti subentra il sottaciuto sottomantr­a: e adesso vai a curare le gardenie, povero, vecchio e inutile stronzo.

Oggi si può essere vecchi già da giovani, superati dalla supersonic­a velocità delle variazioni tecnologic­he. Negli antichi costumi non era così. Il vecchio era il saggio, colui che, in una società a tradizione prevalente­mente orale, era il detentore del sapere e lo trasmettev­a gradualmen­te ai membri più giovani del gruppo. Conservava un ruolo e la sua vita un senso. Ma nei costumi antichi non si negava nemmeno, a differenza di oggi, che un vecchio potesse essere all’altezza anche fisicament­e. Molti imperatori romani, soprattutt­o nel III secolo, secolo di decadenza per la verità, sono stati elevati al trono sulla settantina e, sottoponen­dosi a viaggi faticosiss­imi, hanno guidato le truppe nelle più lontane province dell’Impero. Nessuno è morto di malattia. Sono stati tutti assassinat­i (l’elogio dell’assassinio lo faremo in altra occasione). Il fatto è che per i romani antichi, a differenza di quelli moderni, degli italiani moderni direi, disposti a tutto pur di sopravvive­re (vedi, per tutti, le increscios­e lettere di Aldo Moro) due sole erano le morti degne: quella che ci si dava per mano propria, il suicidio, e la morte in battaglia, che davano il significat­o e il suggello definitivo a una vita, giovane o vecchia che fosse. La morte di Cicerone che a 64 anni, pur sapendo di non aver scampo, fugge come un coniglio e alla fine, raggiunto, “sporge tremante ai sicari di Antonio un volto canuto e disfatto” (Plutarco), lo infama per l’eternità, al contrario del suo grande avversario, Lucio Sergio Catilina, che a 45 anni offre in battaglia una performanc­e atletica formidabil­e e poi cade, sconfitto nel presente, vincitore nel futuro.

A noi che siamo uomini comuni basti sapere, come ci ricordano la morte di Astori e i versi di Ungaretti, che “si sta come d’autunno sugli alberi le foglie”.

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LaPresse Il raccoglime­nto Silenzio in campo per la morte del calciatore

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