Il film e il pastore, Saviano in teatro, Niven e la mostra su Gabriella Ferri
Un eroe singolare è il sottotitolo italiano, non peregrino: P e
tit Paysan, pluripremiato esordio del francese classe 1985 Hubert Charuel, ha un eroe singolare per protagonista e un singolare eroismo per virtù. A metà tra il dramma paesano e il thriller a voltaggio sociale, mette al centro un allevatore di vacche da latte, Pierre (Swann Arlaud), legato alle sue bestie come a nessun altro: né i genitori, con cui a 35 anni ancora vive e litiga, né la sorella veterinaria, né gli amici d’infanzia, né la fornaia spasimante.
LUI E LE SUE mucche, che chiama per nome, munge due volte al giorno e, nel disturbante incipit, sogna perfino di tenere dentro casa. Vita dura ma non priva di soddisfazioni, una “routine inebriante” e totalizzante, che si incrina irreparabilmente quando un’epidemia vaccina si diffonde tra le stalle galliche: il morbo inventato di sana pianta è l’HDF, febbre emorragica dorsale, ma il riferimento smaccato è alla mucca pazza, l’e ncefa lopa tia spongiforme bovina che falcidiò l’Europa e non all’alba del Terzo millennio.
Il protocollo sanitario è impietoso: un sospetto contagio basta e avanza per abbattere tutti i capi di bestiame, ma per Pierre è una risoluzione empia, inaccettabile. Che fare? Salvare i propri animali, costi quel che costi: inumazione clandestina di una mucca ammalata, scambio di targhette identificati- ve, sottrazione di una vacca a un vicino, sicché i confini della legalità vengono prima presi per la cavezza e spostati più in là e poi deliberatamente travalicati.
LA SORELLA Pascale (Sara Giraudeau) lo ostacola, cerca di ricondurlo alla ragione, ma Pierre non ci sente, carica a testa bassa e le prova tutte: manda i genitori in vacanza coatta in Corsica, cerca rifugio in un allevatore youtuber e attivista (Bouli Lanners), eppure, esiste una via di fuga? Charuel è figlio e nipote di allevatori, le vacche le ha go- vernate, la fattoria del film è quella avita: insomma, sa di quel che parla, e in Pierre c’è, se non avesse mollato la stalla per la macchina da presa, il piccolo allevatore che sarebbe diventato. Nondimeno, i meriti del suo esordio vanno ben oltre la verosimiglianza e l’autenticità, perché interessano il cinema tout court: Petit Paysan si smarca dalle convenzioni del dramma rurale, in primis perché il magrolino, cocciuto, financo stolido Pierre non è il contadino scarpe grosse e cervello fino in cui immedesimarsi a occhi chiusi, né a favore di ca- mera zampettano Babemaialini coraggiosi o i colpi di scena mungono la salvezza. Il thriller si schianta sulla realtà, il sistema, qui nella pars
pro toto sanitaria, stringe le viti e le vite, il buon senso finisce per terra, figuriamoci i sentimenti.
Tre César, gli Oscar transalpini (migliore esordio, il protagonista Arlaud e la non protagonista Giraudeau), in bacheca, l’alto gradimento di Agnès Varda e molto ancora: dal 22 marzo in sala, non perdetelo.
Un morbo contagia gli animali Il padrone però non li uccide