CALENDA TRA LANDINI E XI JINPING
Il ministro sogna un Pd che protegga il lavoro ma decida alla svelta come i cinesi
Ogni aspirante leader cerca di estendere quella che considera la propria ricetta di successo: Matteo Renzi voleva essere il sindaco d’Italia, Carlo Calenda sembra voler governare prima il Pd e poi il Paese come ha fatto con il suo ministero dello Sviluppo economico, con un misto di sostegno alle imprese, resistenza alle multinazionali e, soprattutto, decisioni rapide con effetti misurabili e immediati.
Mercoledì sera Calenda ha partecipato a uno dei seminari che l’editore Giuseppe Laterza organizza spesso in casa editrice intorno ai libri che pubblica. Si parlava di Utopia Sostenibile, dell’ex ministro del Lavoro Enrico Giovannini, un programma di governo per tutti i partiti, l’agenda degli obiettivi Onu per il 2030. Ad ascoltare e discutere, tutto l’establishment di quel che resta di una cultura progressista di centrosinistra: da Romano Prodi a Giuliano Amato, da Luciano Canfora al governatore di Bankitalia Ignazio Visco, c’era pure Eugenio Scalfari (nessuno di area Cinque Stelle, però). Se Giovannini offre un’u t o pi a , pragmatica, ambientalista, ambiziosa, da cui il centrosinistra può ripartire, Prodi osserva che tutti gli obiettivi che Giovannini indica “sono sollecitati dal basso ma pare che si possano raggiungere soltanto con un forte intervento dall’alto”, non più con il lento e faticoso dialogo tra cittadini, intellettuali, partiti, corpi intermedi come i sindacati e i governi. Il “nuovo modello” di successo, osserva Prodi, non è più occidentale: è Xi Jinping, il presidente cinese che abolisce i mandati quinquennali per poter rimanere presidente a vita e così si emancipa dai pericoli della “veduta corta”, per citare Tommaso Padoa- Schioppa, che condanna i nostri politici a pensare alle prossime elezioni invece che alle generazioni a venire.
Calenda si candida oggi a offrire una risposta ai dubbi di Prodi (e magari domani anche alla segreteria del Pd, chissà). Il ministro propone una democrazia decidente, preoccupata più dei risultati che di rispettare pesi e contrappesi: “Sbagliato continuare a pensare alle grandi riforme”, bisogna individuare un obiettivo, stabilire una cornice decisionale e poi governare perché “le rifor- me passano attraverso la gestione”. Non va “riformata la scuola” una volta per tutte, ma va cambiata la catena decisionale del mondo della scuola in modo che ministero, presidi e insegnanti possano adattarsi a un contesto che cambia in pochi anni, è il suo esempio.
Questo approccio di governance, più che di governo, non ha però l’obiettivo rottamatore del renzismo, Calenda non vuole liberarsi delle zavorre per favorire le eccellenze, anzi. Il ministro vuole un “governo più forte in un sistema democratico per garantire investimenti e protezione”. Si è iscritto al Pd, dice, per contrastare quell’egemonia culturale che ha fatto passare l’idea che il “liberismo è di sinistra”, come scrivevano nel 2007 Francesco Giavazzi e Alberto Alesina, gli stessi che ancora oggi chiedono di “proteggere i lavoratori, non i posti di lavoro”. Aver applicato questo slogan, sostiene Calenda, “è una delle ragioni per cui la sinistra sta sparendo”. Chi rischia il posto all’Embraco, in Piemonte, non sarà mai ricollocato in una delle start up che aprono nella stessa zona: da ministro, questo, Calenda lo ha capito, cercando di risolvere le crisi industriali sul territorio, Alesina da Harvard ancora no. La sfida per il Pd modello Calenda è “tenere insieme l’utopia sostenibile e l’Alcoa”, la sensibilità ambientale da Ventunesimo secolo e i posti di lavoro generati dall’industria nel Ventesimo.
Il modello di leadership che Calenda offre al Pd cui si è appena iscritto prevede un potere decisionale quasi da Xi Jinping per applicare un’agenda che piacerebbe a Maurizio Landini, l’ex segretario della Fiom. Se questo approccio piacerà alle correnti dem, ai militanti e, prima o poi, agli elettori, è ancora da capire.