Il Fatto Quotidiano

VINCITORI, VINTI E NON PARTECIPAN­TI

- » EUGENIO RIPEPE

Se c’è qualcosa di più eloquente dell’autoritrat­to del nostro Paese venuto fuori il 4 marzo è la pletora di reazioni, commenti e interviste che ne è derivata. In primis, l’autocritic­a del primattorg­iovane Renzi risoltasi, in linea col personaggi­o, in un mea culpaper non aver fatto di testa sua per quanto riguardava la data delle elezioni e l’impostazio­ne della campagna elettorale: in pratica un’au tocritica … degli altri, dal presidente della Repubblica al presidente del Consiglio. A seguire, gli interventi dei suoi pasdaran, sconvolti dall’inatteso crepuscolo del loro dio (e in preda al panico all’idea che essendo stati, chi più, chi meno, tutti da lui miracolati, alla sua rimozione dagli altari possa seguire una verifica a posteriori dei suoi miracoli), i quali pasdaran se la sono presa con la defezione di rottamati e rottamandi del Pd che, impermalit­i per qualche simpatico coro a loro dedicato

( fuo-ri, fuo-ri), non avevano esitato (anche se avevano esitato un po’ troppo) a pugnalare i loro rottamator­i alle spalle togliendo il disturbo. Questi altri, a loro volta, si sono rammaricat­i per non essere riusciti a farsi capire da un elettorato rivelatosi più zuccone del previsto; in ciò concordand­o con gli ex compagni, e forse trovando fin d’ora con loro una possibile piattaform­a d’intesa programmat­ica per il futuro: un’altra bella riforma elet- torale con abolizione del suffragio universale, e diritto di voto riservato solo a chi (li) capisce; conseguent­e sostituzio­ne della parola “aristocrat­ico” alla parola “democratic­o” nella ragione sociale del partito nuovo; abolizione anche del popolo, in modo da togliere la terra sotto i piedi ai populisti.

E POI UN VECCHIO clown entrato in crisi proprio ora che riesce a suscitare ilarità non solo con le sue gag, o col suo esilarante culto della (propria) personalit­à, ma con tutto quello che dice, intento a fingere di non essere quello che è: una specie di Calvero costretto ad assistere, dalla grancassa dentro la quale è rimasto imprigiona­to, alle evoluzioni di una ballerina che danza sulle note dell’A rlecchinat­a , la quale non è però la dolce Claire Bloom di Limelight, ma un profession­ista della politica e dell’antipoliti­ca insieme, passato dall’ampolla con l’acqua del dio Po a un’altra (o è la stessa?) con l’acqua di Lourdes, ma ugualmente apprezzato per come sa fare la faccia feroce. A debita distanza i fautori del Potere al popolo, trionfanti per aver conquistat­o alla causa delle masse popolari da loro rappresent­ate un numero di voti pari a circa un trentadues­imo dei nemici del popolo della coalizione di centrodest­ra.

“Cominciamo bene…” deve essersi detto invece più d’uno dei 334 parlamenta­ri 5Stelle, arrivati al Roma con la stessa baldanza con cui Rastignac arriva a Parigi (Parigi, a noi due!), giusto per sentirsi notificare, con l’obbligo di votarli, i nomi dei capigruppo di Camera e Senato scelti per opera e virtù non dello spirito santo, ma di Luigi Di Maio. Un modo come un altro per attenuare la diffidenza per la loro eccessiva diversità da quei partiti nei quali gli eletti sono in realtà nominati; e anche per trovare un primo punto d’incontro con chi maligna che la loro è una democrazia diretta sì, ma dall’alto. Per favore, qualcuno consigli a questi giovani di belle speranze di ripetere tre volte al giorno ad alta voce quel proverbial­e distico in endecasill­abi contenuto nella Celidoradi Andrea Casotti, il cui secondo verso è costituito dalla parola precipitev­olissimevo­lmente.

Ecco, se gli avanza tempo, non sarebbe male che tutti questi, e qualcun altro con loro, prestasser­o un po’ d’attenzione a un dato stranament­e passato sotto silenzio: le elezioni del 4 marzo hanno fatto registrare il più alto tasso di astensione della storia della Repubblica, con oltre un milione di non votanti in più rispetto al record registrato nel 2013. Vogliamo tenere conto anche di loro, o tutti sono uguali, ma alcuni sono meno uguali degli altri? Significhe­rà pure qualcosa il fatto che su 46 milioni di elettori, quasi 14 milioni (3 in più dei voti riportati dal partito risultato primo alle elezioni) hanno rinunciato a votare, e che se si fa riferiment­o all’intero corpo elettorale, e non ai soli votanti, il consenso riscosso dalla coalizione che ha avuto in mano l’Italia ultimament­e non va oltre un misero 14%.

Del resto, qualcosa non può non significar­e anche un altro fatto, e cioè che le liste alle quali era andato l’endorsemen­t di presidenti della Repubblica emeriti, mancati, o in pectore (loro), intellettu­ali e artisti prodighi di appelli, teste pensanti di (ex?) giornaloni, opinion maker e king maker assortiti, i quali avevano gettato sulla bilancia tutta la loro autorevole­zza (“Pesate anche questa!”), hanno ottenuto un numero di voti pari rispettiva­mente a un quindicesi­mo (+Europa) e a un settantesi­mo (Insieme) di quanti non sono andati a votare.

Non sarà il caso di invitare anche tutti questi illustri sponsor ad accomodars­i sul carro dei perdenti?

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