VINCITORI, VINTI E NON PARTECIPANTI
Se c’è qualcosa di più eloquente dell’autoritratto del nostro Paese venuto fuori il 4 marzo è la pletora di reazioni, commenti e interviste che ne è derivata. In primis, l’autocritica del primattorgiovane Renzi risoltasi, in linea col personaggio, in un mea culpaper non aver fatto di testa sua per quanto riguardava la data delle elezioni e l’impostazione della campagna elettorale: in pratica un’au tocritica … degli altri, dal presidente della Repubblica al presidente del Consiglio. A seguire, gli interventi dei suoi pasdaran, sconvolti dall’inatteso crepuscolo del loro dio (e in preda al panico all’idea che essendo stati, chi più, chi meno, tutti da lui miracolati, alla sua rimozione dagli altari possa seguire una verifica a posteriori dei suoi miracoli), i quali pasdaran se la sono presa con la defezione di rottamati e rottamandi del Pd che, impermaliti per qualche simpatico coro a loro dedicato
( fuo-ri, fuo-ri), non avevano esitato (anche se avevano esitato un po’ troppo) a pugnalare i loro rottamatori alle spalle togliendo il disturbo. Questi altri, a loro volta, si sono rammaricati per non essere riusciti a farsi capire da un elettorato rivelatosi più zuccone del previsto; in ciò concordando con gli ex compagni, e forse trovando fin d’ora con loro una possibile piattaforma d’intesa programmatica per il futuro: un’altra bella riforma elet- torale con abolizione del suffragio universale, e diritto di voto riservato solo a chi (li) capisce; conseguente sostituzione della parola “aristocratico” alla parola “democratico” nella ragione sociale del partito nuovo; abolizione anche del popolo, in modo da togliere la terra sotto i piedi ai populisti.
E POI UN VECCHIO clown entrato in crisi proprio ora che riesce a suscitare ilarità non solo con le sue gag, o col suo esilarante culto della (propria) personalità, ma con tutto quello che dice, intento a fingere di non essere quello che è: una specie di Calvero costretto ad assistere, dalla grancassa dentro la quale è rimasto imprigionato, alle evoluzioni di una ballerina che danza sulle note dell’A rlecchinata , la quale non è però la dolce Claire Bloom di Limelight, ma un professionista della politica e dell’antipolitica insieme, passato dall’ampolla con l’acqua del dio Po a un’altra (o è la stessa?) con l’acqua di Lourdes, ma ugualmente apprezzato per come sa fare la faccia feroce. A debita distanza i fautori del Potere al popolo, trionfanti per aver conquistato alla causa delle masse popolari da loro rappresentate un numero di voti pari a circa un trentaduesimo dei nemici del popolo della coalizione di centrodestra.
“Cominciamo bene…” deve essersi detto invece più d’uno dei 334 parlamentari 5Stelle, arrivati al Roma con la stessa baldanza con cui Rastignac arriva a Parigi (Parigi, a noi due!), giusto per sentirsi notificare, con l’obbligo di votarli, i nomi dei capigruppo di Camera e Senato scelti per opera e virtù non dello spirito santo, ma di Luigi Di Maio. Un modo come un altro per attenuare la diffidenza per la loro eccessiva diversità da quei partiti nei quali gli eletti sono in realtà nominati; e anche per trovare un primo punto d’incontro con chi maligna che la loro è una democrazia diretta sì, ma dall’alto. Per favore, qualcuno consigli a questi giovani di belle speranze di ripetere tre volte al giorno ad alta voce quel proverbiale distico in endecasillabi contenuto nella Celidoradi Andrea Casotti, il cui secondo verso è costituito dalla parola precipitevolissimevolmente.
Ecco, se gli avanza tempo, non sarebbe male che tutti questi, e qualcun altro con loro, prestassero un po’ d’attenzione a un dato stranamente passato sotto silenzio: le elezioni del 4 marzo hanno fatto registrare il più alto tasso di astensione della storia della Repubblica, con oltre un milione di non votanti in più rispetto al record registrato nel 2013. Vogliamo tenere conto anche di loro, o tutti sono uguali, ma alcuni sono meno uguali degli altri? Significherà pure qualcosa il fatto che su 46 milioni di elettori, quasi 14 milioni (3 in più dei voti riportati dal partito risultato primo alle elezioni) hanno rinunciato a votare, e che se si fa riferimento all’intero corpo elettorale, e non ai soli votanti, il consenso riscosso dalla coalizione che ha avuto in mano l’Italia ultimamente non va oltre un misero 14%.
Del resto, qualcosa non può non significare anche un altro fatto, e cioè che le liste alle quali era andato l’endorsement di presidenti della Repubblica emeriti, mancati, o in pectore (loro), intellettuali e artisti prodighi di appelli, teste pensanti di (ex?) giornaloni, opinion maker e king maker assortiti, i quali avevano gettato sulla bilancia tutta la loro autorevolezza (“Pesate anche questa!”), hanno ottenuto un numero di voti pari rispettivamente a un quindicesimo (+Europa) e a un settantesimo (Insieme) di quanti non sono andati a votare.
Non sarà il caso di invitare anche tutti questi illustri sponsor ad accomodarsi sul carro dei perdenti?