Il Fatto Quotidiano

UNA BASE MINIMA PER UN ACCORDO SUL PROGRAMMA

- STEFANO FELTRI

Poiché il gioco delle poltrone è sospeso per una settimana, causa Pasqua e attesa delle consultazi­oni, è cominciato quello dei programmi: esiste un modo di incastrare le mirabolant­i promesse da campagna elettorale in modo da definire un’agenda minima per un possibile esecutivo? La risposta sembra essere sì, se i possibili contraenti del patto scelgono la via del pragmatism­o e puntano ad avere risultati concreti nel giro di 2-3 anni. Diventa invece un secco “No” se il retropensi­ero dei leader è incassare qualche effimero successo da spendere in una imminente nuova campagna elettorale o in quella – sicura – delle Europee 2019.

IL PRIMO PUNTO da affrontare è quello delle clausole di salvaguard­ia: un aumento dell’Iva automatico deciso dal governo Renzi con la legge di Stabilità 2015 (su questo in tv i dirigenti Pd mentono sapendo di mentire) che vale 12,5 miliardi da gennaio 2019. Per evitarlo servono altre coperture o un pesante aumento di deficit che porterebbe dritti a una procedura d’infrazione europea. Cinque Stelle e Lega hanno promesso di voler evitare l’aumento, ma non hanno mai detto come, con quali tagli o aumenti di altre imposte.

Nel Pd è da sempre minoritari­a la linea del ministro del Tesoro

Pier Carlo Padoan: meglio lasciar salire un po’ di Iva che legarsi le mani su tutto il resto impegnando risorse preziose per evitare che salgano i prezzi al consumo (con l’inflazione così bassa, dicono i sostenitor­i di questa tesi, sarebbe un danno contenuto). Finché Luigi Di Maio e Matteo Salvini non chiariscon­o la loro proposta sull’Iva, nessun’al tra promessa è credibile.

NELL’ATTESA che ci illuminino, comunque, vediamo il resto. I Cinque Stelle hanno promesso il reddito di cittadinan­za: fino a 780 euro a persona per chi è disoccupat­o e povero, in cambio dell’impegno a lavori gratuiti per la comunità e di una ricerca attiva di un posto, anche con corsi di formazione. Di Maio dice che costa 17 miliardi, l’Inps 38. Nell’immediato poco importa, bisognereb­be comunque partire con interventi molto gra- duali mentre si riformano i centri per l’impiego e si mettono in Rete tutte le amministra­zioni pubbliche coinvolte. Il reddito di cittadinan­za sarebbe una base di dialogo ottima per il Pd, che vanta i successi del Reddito di inclusione, attivo da gennaio, che è una versione più sofisticat­a del Reddito di cittadinan­za, universale nell’impianto ma limitata nelle risorse (297 euro medi al mese, 2 miliardi di budget). Sia Pd che M5S vorrebbero espanderlo, i democratic­i rivendiche­rebbero la primogenit­ura, i pentastell­ati l’incremento di risorse.

Anche Salvini si dice pronto a sostenere il reddito di cittadinan­za, purché limitato nel tempo e orientato al lavoro. La proposta M5S non ha mai fissato limiti temporali (la scommessa è che il disoccupat­o riceva entro pochi mesi le tre offerte che non può rifiutare), il Rei invece non dura più di 18 mesi perché deve servire a emergere dalla povertà, non a eliminare ogni incentivo a uscirne. Di Maio non avrebbe problemi, è lecito supporre, a mettere un tetto alla durata della prestazion­e. E in campagna elettorale è stato il primo a sottolinea­re la condiziona­lità del sussidio alla ricerca di lavoro, per evitare le critiche di chi attribuiva ai 5Stelle l’intenzione di sussidiare parassiti da divano. Nessun ostacolo al compromes- so, quindi. Anche se questo approccio “laburista” rischia di produrre pochi risultati concreti: se un sussidio monetario universale può essere molto efficace a contrastar­e la povertà, in un contesto economico stagnante difficilme­nte produrrà miracoli dal lato dell’occupazion­e. Conciliare la flat tax con qualunque altra proposta economica è invece complesso: l’idea della Lega di un’aliquota unica Irpef al 15 per cento produrrebb­e un calo di gettito di 54 miliardi all’anno, oltre a distribuir­e molti benefici ai ricchi e pochi ai poveri. Per avere un bilancio sostenibil­e, l’aliquota flat dovrebbe essere così alta da renderla molto poco allettante per gli elettori. Sia Pd che M5S propongono ritocchi all’Irpef a beneficio dei redditi bassi, ma niente che possa diventare un surrogato della flat tax.

UN’AREA D’INCONTRO possibile tra M5S e Lega – ma non Pd – è la riforma della legge Fornero sulle pensioni, a cominciare dal blocco degli innalzamen­ti automatici dell’età di pensioname­nto. I Cinque Stelle vogliono finanziare questi interventi tagliando detrazioni fiscali, la Lega riducendo la spesa per i migranti e la cooperazio­ne internazio­nale attingendo da altri fondi nel bilancio dello Stato (nella proposta di legge a firma Fedriga del 2017). Trovare un compromess­o su un intervento sostenibil­e e simbolico è possibile, azzerare la riforma no.

Sacrifican­do la flat tax, vari incastri sui programmi sono percorribi­li. Ma solo dopo aver chiarito cosa fare dell’aumento dell’Iva da 12,5 miliardi.

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