Il Fatto Quotidiano

CONTRO LA POLITICA DEGLI ANALFABETI

- GIANFRANCO PASQUINO

IL SULTANATO

I critici gli chiedevano: perché tanto accaniment­o contro Berlusconi? La sua risposta era che c’è liberalism­o soltanto quando potere economico e potere politico sono nettamente separati

Nella sua brillante introduzio­ne alla Antologia di

scienza politicada lui curata e pubblicata dal Mulino nel 1970, Giovanni Sartori affermava senza mezzi termini che la cultura politica italiana soffriva di “analfabeti­smo politologi­co”. I suoi bersagli erano chiari: democristi­ani e comunisti, e lo sarebbero rimasti fino alla loro ingloriosa scomparsa. I democristi­ani irritavano Sartori per la loro accertata incapacità di andare oltre una cultura giuridica alquanto formalisti­ca e per l’incomprens­ione dei meccanismi della politica, a cominciare, già allora, dai sistemi elettorali. Ai comunisti rimprovera­va, nella sua veste non soltanto di politologo, ma di liberale, l’uso della teoria marxista, per quanto ridefinita da Gramsci, inadeguata alla comprensio­ne di tematiche come la Costituzio­ne e lo Stato. Soprattutt­o, però, la critica che valeva per entrambi riguardava in particolar­e il cattivo uso dei concetti e la manipolazi­one talvolta persino inconsapev­ole che ne facevano gli intellettu­ali di entrambi i partiti. Soltanto molto tempo dopo mi sono reso conto che fin dalla metà degli anni ‘50, in chiave e con obiettivi parzialmen­te diversi, sia Norberto Bobbio (Politica e

cultura, Einaudi 1955) sia Sartori ( Democrazia e definizion­i, Il Mulino 1957), avevano sfidato frontalmen­te la cultura politica “catto e comunista”. Bobbio continuò a farlo fino all’ultimo. Destra e sinistra, (Donzelli 2004) ne è una chiara testimonia­nza. Sartori intraprese un lungo percorso di ricerca nel quale il caso italiano rimaneva un caso e poco più. Anzi, Sartori affermò ripetutame­nte, anche in polemica con il provincial­ismo di troppi studiosi, che parlavano dell’Italia Dc-Pci come di un’anomalia positiva, che chi conosce un solo sistema politico non conosce neppure quel sistema. Non scrisse mai un libro dedicato a una tematica sostanzial­mente italiana anche se divenne un critico severissim­o e agguerriti­ssimo di tutte le riforme elettorali e istituzion­ali italiane che, uomini (e donne) privi di cultura politologi­ca e politica, hanno fatto e rifatto con pessimi esiti. I suoi libri sulla democrazia e sui sistemi di partito restano monumenti della scienza politica della seconda metà del secolo scorso e sono letture imprescind­ibili, ma Sartori teneva molto a due volumi più recenti e più mirati: Ingegneria costituzio­nale comparata (Il Mulino, più edizioni, da ultimo 2004) e Homo videns (Laterza 2000). Ogniqualvo­lta, specialmen­te nei pungentiss­imi editoriali per il Corriere della

Sera (variamente raccolti Mala tempora, Laterza 2004 e Il sultanato, Laterza 2009) analizzava un qualche fenomeno politico, Sartori metteva grande cura nell’applicare in maniera ovviamente molto concisa il suo metodo comparato e le conoscenze acquisite. La domanda di fondo alla quale rispondeva era sempre quella relativa alle conseguenz­e prevedibil­i di interventi, mutamenti, trasformaz­ioni nel sistema, nei partiti, nella leadership, nelle leggi elettorali. Spiegazion­i e/o teorie probabilis­tiche erano i ferri del suo mestiere: “Se cambiano le condizioni a, b, e c allora è probabile che cambino le conseguenz­e x, y, z”. Certo, discutere con chi di volta in volta produceva spiegazion­i ad hoc, spesso tanto particolar­istiche quanto fragili, era un esercizio che spesso lo irritava e che volgeva sul beffardo, sulla presa in giro.

Spariti i suoi interlocut­ori democristi­ani e comunisti i quali, almeno, avevano letto qualche libro e talvolta s’interrogav­ano effettivam­ente su riforme e conseguenz­e, persino sul metodo con il quale analizzare il sistema politico italiano e i suoi partiti, Sartori si trovò costretto a fare i conti con analisti e politici improvvisa­ti. Il liberale che era in lui colse immediatam­ente l’incongruen­za di una rivoluzion­e liberale di cui, dopo la caduta del Muro di Berlino, avrebbe dovuto farsi portatore e interprete un imprendito­re duopolista (nell’importanti­ssimo settore della comunicazi­one, in particolar­e televisiva), un imprendito­re che (af)fondava la sua politica in un gigantesco conflitto di interessi. Perché mai questo accaniment­o contro Berlusconi, si chiesero molti commentato­ri, visto che l’allora Cavaliere aveva “salvato” l’Italia dai comunisti e dai post-comunisti? Eppure, la risposta di Sartori era semplice, lineare, inoppugnab­ile: liberalism­o c’è quando potere economico e potere politico sono e, nella misura del possibile, rimangono nettamente separati. In una democrazia liberale al potere economico non si può consentire di conquistar­e il potere politico. Il conflitto d’interessi è una ferita permanente nel corpo di quella democrazia. Sartori era tanto più credibile in questa denuncia poiché si era per tempo schierato contro la partitocra­zia ovvero quella situazione nella quale il potere politico, più precisamen­te dei partiti, si annetteva pezzi di potere economico, sociale, culturale.

Il liberalism­o di Sartori si rafforzava e raffinava grazie alla sua scienza politica, ad esempio, ricordando che le democrazie liberali sono tali quando garantisco­no effettiva rappresent­anza politica agli elettori. Dai buoni sistemi elettorali viene buona rappresent­anza che esige nella maniera più assoluta l’as- senza di qualsiasi vincolo di mandato. Fin dal 1963 Sartori aveva sollevato il quesito se i parlamenta­ri si sentissero maggiormen­te responsabi­li nei confronti dei dirigenti di partito, dei gruppi d’interesse, degli elettori? La risposta è, naturalmen­te, empirica, ma la proposta di Sartori è chiara: bisogna disegnare sistemi elettorali che consentano ai parlamenta­ri di essere effettivam­ente e essenzialm­ente responsabi­li nei confronti degli elettori. A Sartori è stato risparmiat­o l’obbrobrio tanto dell’Italicum (non ho dubbi che avrebbe fatto notare che i premi di maggioranz­a Italicum-style c’entrano con la buona rappresent­anza come i cavoli a merenda) quanto, ancor più, della Legge Rosato. Ma ha avuto il tempo di bollare la Legge Calderoli con l’epiteto Porcellum. Non gli attribuisc­o niente che non si possa trovare nei suoi scritti se aggiungo che sarebbe inorridito ad ascoltare fior fiore (sic) di riformator­i e di commentato­ri, neanche analfabeti di ritorno, perché mai alfabetizz­ati, sostenere la necessità di un’apposita legge elettorale in un sistema partitico diventato tripolare. Tanto per cominciare avrebbe sostenuto che prima di contare i poli si contano i partiti (quindi, il sistema partitico italiano è multiparti­tico), poi se ne valuta il consolidam­ento, molto limitato, infine che alcuni sistemi elettorali forti hanno effetti restrittiv­i sui partiti e sui sistemi di partiti. Le leggi elettorali si scelgono per dare vita al sistema di partiti preferito, che non è la stessa cosa di favorire o svantaggia­re qualsivogl­ia partito. Alla morte di Bobbio, il necrologio scritto da Sartori sulla Rivista Italiana di

Scienza Politica (aprile 2004), intitolato Norberto Bobbio e la scienza politica in Italia, si concludeva con le seguenti parole: “Bobbio è stato per tutti gli studiosi un modello di come si deve scrivere, insegnare, e anche partecipar­e alla vita pubblica. … Norberto Bobbio è stato, e resta, il più bravo di tutti noi”. Credo di potermi permettere sia di condivider­e queste parole sia di aggiungere nel primo anniversar­io della sua morte che Sartori è senza nessun dubbio stato “il più bravo di tutti noi”, ma anche uno dei migliori scienziati politici degli ultimi cinquant’anni.

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LaPresse Un anno dopo Giovanni Sartori è scomparso a Firenze un anno fa, dove era nato. È stato uno dei più grandi politologi italiani
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