Fede&Rolls Royce: Osho che paraguru
Serie Netflix Biografia per immagini del santone indiano e la comune dell’Oregon negli anni 80 in guerra con i cow-boy
“Ho
vinto alla lotteria una Rolls- Royce!”, ci disse l’euforico Lorenzo S., e noi tutti lo guardammo con grande invidia. Era l’estate del 1984, mi trovavo a Los Angeles per raccontare le Cocacoliadi, lo avevo conosciuto quando lavorava all’Espresso in Italia, prima che se ne andasse in India, sedotto dagli insegnamenti sincretici del misticismo “arancione”, a Poona, dove si trovava il celebre ashram di Bhagwan Shree Rajneesh, il centro di meditazione più frequentato di allora: lui, professore di Filosofia, era diventato il guru del “risveglio spirituale” e della “illuminazione”. Le sue idee furono cooptate dal pensiero New Age( anche se Rajnesh non si riconosceva affatto in quel movimento “troppo alla moda”).
APoona, non lontano da Mumbay, ci andavano sino a trentamila persone l’anno, moltissimi gli occidentali, parecchi gli italiani che avevano letto i Vagabondi del Dharma di Jack Kerouac, si erano fatti (in ogni senso della parola) riassumere le lezioni di Alan Watts e disprezzavano la civiltà del consumismo. Andrea Valcarenghi – quello di Re Nudo, la rivista degli anni hippies italiani – e il povero Mauro Rostagno, ammazzato dalla mafia in Sicilia nel 1988, si recarono pure loro all’ashram di “Osho”, il nome che Rajneesh aveva scelto per rappresentarsi: significava “oceanico”, se non ricordo male. Uno che tentava inutilmente di indottrinarmi era Giorgio Cerquetti, altro arancione storico di Milano, teorico del “grande potere terapeutico della nostra energia vitale naturale”, laureato con una tesi su Hegel e la spiritualità indiana alla Statale di Milano.
Quanto a Osho, Maestro spirituale dei neosannyssin, cioè gli arancioni, trovavamo sconcertante la sua ostentazione del lusso: Rolls, Rolex, business. La sua organizzazione era efficiente, ma anche molto chiusa e segreta. I suoi adepti denotavano compattezza e fedeltà. Momento topico, l’apertura del “terzo occhio”, quando irrompe nel tuo Io la sapienza e la saggezza. Insomma, i sannyasin venivano plasmati (e spennati) per benino...
Molti di loro erano reduci disillusi e delusi del Sessantotto e più tardi del Settantasette. Avevano vissuto gli anni della contestazione, delle università occupate, operai e studenti, ma anche strage di Stato; si erano imbevuti di internazionalismo, e di ideologie che avevano avuto derive terroristiche; si erano battuti in estenuanti conflitti generazionali, di genere e di classe. Il “viaggio all’Eden” era per depurarsi. E conquistare la pace interiore si compiva ripetendo “Om” (una delle sei sillabe sacre, simbolo dell’anima universale) sulle note del sitar di Ravi Shankar che ci regalava le vibrazioni del cosmo. Moltissimi tenevano in tasca la minuta edizione Frassi- nelli del Siddharta di Hermann Hesse, la bibbia dei der Suchende, di coloro che cercano. Gente inquieta e bisognosa di certezze. Alcuni credettero di averle individuate nella mistica arancione...
LORENZO S. – che nel frattempo si era trasferito in California – ci precisò che la Rolls vinta al sorteggio era una delle 93 Silver Spur possedute da Rajnesh nella sterminata comunità Rajneshpuram di Antelope, minuscola cittadina dell’Oregon dove nel 1981 aveva acquistato il Bid Muddy Ranch (64 mila acri!), con il sogno di trasformarlo in una sorta di paradiso in terra. Non ci riferì, invece, che l’arrivo degli arancioni aveva provocato un enorme conflitto con gli allevatori della regione e con gli abitanti di Antelope. Ma si sa, il metro di giudizio degli affiliati di una setta è assai poco credibile. Nell’alm an ac co degli anni Ottanta, le utopie sessantottine erano già state seppellite dalla consacrazione dell’effimero e dell’apparenza. Trionfavano il liberi- smo, il ritorno al privato, il rifiuto della riflessione. Tutto ciò che la Famiglia Arancione rinnegava. Ma in questo fortino dell’utopia, una banda di gaglioffi agiva illegalmente. L’anima nera di questa comunità era una donna, la segretaria factotum di Rajnesh: Ma Anand Sheela, al secolo Sheela Silverman. Era lei l’autista della Rolls cabriolet bianca che ospitava sul sedile posteriore il guru, vestito di bianco come un angelo. Un giorno, Sheela se la squagliò in Svizzera con la cassa della comunità: cento milioni di dollari.
BHAGWAN – che si era trincerato in un lungo mistico silenzio di quasi tre anni, forse per protestare contro la protervia di chi lo aveva affiancato nell’impresa e poi manipolato negli affari – denunciò tutto e dichiarò la fine del sogno. Divenne un reietto: arrestato e cacciato dagli Stati Uniti, respinto da una trentina di Paesi, Rajnesh sosteneva d’essere stato vittima di un complotto “fascista” ordito dai fondamentalisti cristiani e dal mondo politico. Morirà nel 1990 per insufficienza cardiaca. Provocata da un misterioso avvelena- mento da tallio, secondo il suo legale.
L’incredibile parabola di Rajnesh è diventata un’intrigante docu-serie (sei puntate) su Netflix: Wild wild country. Di selvaggio ci sono i problemi che costellarono la nascita e la morte della comunità arancione nell’Oregon: immigrazione, libertà di religione, uso del suolo, differenze culturali, il più colossale uso delle intercettazioni negli States, addirittura il primo atto di bioterrorismo negli Stati Uniti, quando Sheela e i suoi sgherri diffusero la salmonella in alcuni ristoranti dell’Oregon, sino al tentativo di assassinio dello stesso Osho: “Abb ia mo cercato di far rivivere un pezzo, in gran parte dimenticato, della storia culturale americana – dichiarano i registi Chapman e Macland May – in cui la nostra nazionale tolleranza per la separazione tra Chiesa e Stato fu messa a dura prova”. Era ieri, pare oggi.
L’anima nera della comunità era la segretaria factotum di Rajnesh, leader di una banda di gaglioffi nel fortino dell’utopia