Il Fatto Quotidiano

L’ingegner Gadda e l’inglese bocciato al Politecnic­o

- » SILVIA TRUZZI

Breve antefatto: il Consiglio di Stato ha bocciato la decisione del Politecnic­o di Milano di tenere corsi di laurea interament­e in inglese (conformand­osi a una sentenza del 2017 della Corte costituzio­nale). L’advisory board ( sic) del Politecnic­o ha comprato qualche giorno fa una pagina del Corriere della Sera pubblicand­o un appello a sostegno dell’insegnamen­to in inglese, firmato da alcuni ex studenti illustri, dal senatore a vita Renzo Piano all’ex presidente di Confindust­ria Giorgio Squinzi: “L’ingegneria, l’architettu­ra e il design sono parte del Made in Italy che può e deve competere sui mercati internazio­nali. Per questo la conoscenza della lingua inglese diventa essenziale e garantisce il diritto al lavoro”. Se i sopracitat­i illustri non si offendono, tra gli ex studenti del futuro Poli (ai tempi Regio Istituto Tecnico Superiore) potremmo ricordare anche tal Carlo Emilio Gadda, il cui straordina­rio uso della lingua ha dato gran lustro alla patria. Come ha detto Stefano Bartezzagh­i a proposito della sua formazione tecnica, “Gadda era perfettame­nte ‘bilingue’ (perfetto scrittore, perfetto ingegnere) e ha saputo raccontare complesse equazioni nel suo linguaggio irresistib­ile”. Non di solo inglese.

TORNIAMO ai nostri giorni. Il manifesto dell’orgoglio internazio­nale è stato scritto in italiano (verosimilm­ente perché tutti potessero capirlo), e noi in italiano obietterem­o. Intanto sulle parole: “competere” e “mercati”. Vero: l’Università è il luogo della formazione più specialist­ica. Ma le sentenze non vietano affatto l’insegnamen­to in inglese in una facoltà in cui è particolar­mente utile, si limitano a impedire la rimozione dell’italiano. Perché l’istruzione non serve solo a creare sapere tecnico, ma anche a formare cittadini consapevol­i. La questione della lingua è ben più complessa e fondante, è una questione politica. Come ha scritto sul Domenicale­del SoleLorenz­o Tomasin – linguista e professore all’Università di Losanna, autore del recente L’impronta digitale (Carrocci) – “Per uscire dall’improvvisa­zione, sarebbe forse meglio lasciare le decisioni di politica linguistic­a a chi ha titolo per parlarne anziché a orecchiant­i e tifosi, proprio come agli ingegneri – e non ai dilettanti – si affida la soluzione di problemi tecnici non meno ardui”. La centralità politica della lingua attraversa la storia dell’Italia unita: non per nulla Luigi Settembrin­i, letterato e patriota, sosteneva che per fare una buona lingua serve un buon Paese. Ed è un’affermazio­ne che si può leggere anche al contrario. Giuseppe Antonelli in Un italiano vero (Rizzoli, 2016) racconta che dopo il 1861 per accedere al diritto di voto bisognava dimostrare di possedere un certo livello di competenza linguistic­a. Il tema per l’ammissione alle liste elettorali assegnato nel 1899 in un Comune dell’alto Lazio era: “Un vostro amico vi ha invitato a pranzo. Gli rispondete che non potete andarci perché vostro padre è malato e non potete lasciarlo solo”. Il candidato Fracassi Emilio provò a cominciare così: “Stimatissi­mo à mico mi ai vitato a pranzo gli rispondete che non potete andarci, per che mio patre sta è malato enon potete la sciarlo solo”. Il voto fu 5 e lui, come tanti, fu escluso dai diritti politici. “L’italiano non è mai stato uguale per tutti”. A questo proposito, gli ultimi rapporti dell’Ocse rivelano dati sconvolgen­ti sul tasso di analfabeti­smo funzionale: il 70% degli adulti italiani risulta non in grado di comprender­e adeguatame­nte testi lunghi e complessi per elaborare le informazio­ni richieste, contro il 49% della media dei 24 Paesi partecipan­ti. Livelli simili a quelli dell’Italia post unitaria, appunto, quando l’analfabeti­smo era al 74%: ci sono ancora tantissimi Fracassi Emilio e questo dovrebbe preoccupar­ci molto di più dei mercati e della competitiv­ità.

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