L’eroico Duce senza ombrello
Gli scritti di Indro su Mussolini in un nuovo libro
La
prima sede della casa editrice Longanesi fu a casa mia in piazza Castello, che poi era la casa di Piero Gadda Conti, dove Longanesi si era acquartierato perché nella disastrata Milano dell’im m ed i at o dopoguerra non si trovava una stanza neanche a pagarla oro. E lì, senza neanche uno straccio di segretaria, lui disteso sul letto, io a cavalcioni di uno sgabello, cominciammo a programmare i libri che non avevamo. Don Chisciotte per vocazione, io ero costretto, con Longanesi, a fare il Sancho Panza. “Vedrai”, diceva, “da qui a tre mesi saremo sommersi di patacche sulla Resistenza. E da qui a un anno il pubblico comincerà, giustamente, a vomitarli. Hai qualcuno che possa scrivermi un’apologia di Mussolini?”.
Come fare un’apologia
La prima sede della casa editrice Longanesi fu a casa mia in piazza Castello, che poi era la casa di Piero Gadda Conti, dove Longanesi si era acquartierato perché nella disastrata Milano dell’immediato dopoguerra non si trovava una stanza neanche a pagarla oro. E lì, senza neanche uno straccio di segretaria, lui disteso sul letto, io a cavalcioni di uno sgabello, cominciammo a programmare i libri che non avevamo. Don Chisciotte per vocazione, io ero costretto, con Longanesi, a fare il Sancho Panza. “Vedrai”, diceva, “da qui a tre mesi saremo sommersi di patacche sulla Resistenza. E da qui a un anno il pubblico comincerà, giustamente, a vomitarli. Hai qualcuno che possa scrivermi un’apologia di Mussolini?”. “Be’” facevo io, “proprio un’apologia...” “Un’apologia” urlava lui, “voglio un’apologia. Ma non di quelle che si scrivevano al tempo suo, che sono altre patacche. Voglio un’a p ologia del Duce coglione... Un editore che voglia precedere i tempi non può debuttare con altro libro. Ma chi lo scrive?”. Fu il caso che ci aiutò a trovarlo. Da un amico venimmo a sapere che a Milano si nascondeva Navarra, l’usciere di Mussolini. Scambiandolo per lui, i partigiani avevano fucilato un altro, com’era successo con Teruzzi. E quello vero, quando lo aveva saputo, era stato colto da un coccolone che lo aveva lasciato mezzo impedito.
DOPO PAZIENTI ricerche lo scovammo; ma dapprincipio, sebbene gli dessimo le più convincenti prove delle nostre buone intenzioni, non riuscimmo a persuaderlo a raccontarci il Mussolini che lui aveva servito, giorno dopo giorno, per vent’anni. Pensava che volessimo diffamarlo, e si rifiutava di prestarsi. Invano Longanesi cercava di spiegargli che volevamo giusto il contrario. Alla fine dovette ricorrere alle minacce. “Cosa face- va Mussolini a palazzo Venezia la domenica, quando non poteva comandare a nessuno?”. Navarra puntava i gomiti sul tavolo, poggiava il mento sui polsi incrociati e fissava gli occhi corrucciati alla finestra. “E gli occhiali, quando era solo, li metteva?”. Navarra faceva vivacemente segno di no, e Longanesi gli versava un bicchiere di vino, ma non glielo dava, finché l’altro non faceva un rassegnato segno di sì. Dapprincipio Navarra tentò di far quadrato intorno alla versione eroica e statuaria del Duce e di difenderla dalle nostre intenzioni dissacratorie. Insisteva sui commenti che facevano i grandi personaggi soprattutto stranieri mentre aspettavano di essere ricevuti, sull’emozione con cui entravano nella sala del Mappamondo, sugli sperticati elogi che, uscendone, facevano di lui. Noi fingevamo di trascrivere per contentarlo. Poi Longanesi tornava a incalzare: “È vero che aveva una paura birbona dei raffreddori?”. Navarra non voleva ammetterlo, quella miseria sembrandogli incompatibile con la grandezza dell’uomo, ma alla fine doveva convenirne. Sì, Mussolini temeva i raffreddori, li temeva più delle pistole degli attentatori, ma siccome non voleva mostrarlo, andava sempre a capo scoperto, e così li prendeva davvero. Ma l’ombrello non lo volle mai, e disprezzava coloro che lo usavano. Non lo volle nemmeno quando parlò in tedesco a Norimberga, pioveva come Dio la mandava, e l’acqua, cadendogli sui fogli su cui il discorso era trascritto, cominciò a sbiadire e a confondere le parole rendendogliene incerta la lettura. Dopo, era furioso; ma non potendo prendersela che con se stesso, disse: “La pioggia può scolorirmi le parole. Le idee, no”.
CI VOLLERO settimane per indurre Navarra a sbottonarsi sul capitolo donne. E anche a questo lo costringemmo con un ricatto, cioè minacciandolo di scrivere che il Duce era impotente. Allora la sua memoria si svegliò, e dopo le prime esitanti ammissioni, diede fondo ai ricordi che, fino all’avvento di Claretta, erano tanti, quasi uno al giorno. Fu Navarra a rivelare per primo dove faceva l’amore Mussolini: non in qualche salotto privato, ma nella stessa sala del Mappamondo. Sul tappeto sotto il tavolo (unico mobile della stanza) con le nuove, sul sedile di pietra ricavato nel vano dei finestroni con quelle già collaudate. Eccetera. Così nacque questo libro, il primo della nuova casa editrice. Non lo scrisse Navarra. Lo scrivemmo Longanesi e io, ma dalla prima parola all’ultima sotto dettatura di Navarra, che poi lo firmò, ma dopo molte esitazioni. Era costretto a riconoscere che non c’erano bugie, ma lamentava l’omissione delle molte cose che aveva raccontato a gloria del Duce e a conferma della leggenda di regime. Leggendone le bozze, Longanesi brontolò: “Non è l’eroe che voleva Navarra, ma non è nemmeno il coglione che volevamo noi. Meglio così. Vedrai che successo”. Invece, fu un mezzo fiasco. Se n’esaurì un’edizione, ma in tanti mesi e così a fatica che – mi sembra di ricordare – non se ne fecero altre. Longanesi non sapeva darsene pace. Cercai di spiegargli che un editore doveva, sì, precedere i tempi, ma
Longanesi temeva di essere sommerso da ‘libri patacca’ sulla Resistenza e voleva un’apologia del Duce coglione ‘Ma chi lo scrive?’ Alla fine convincemmo l’usciere di Mussolini a parlare, tra vino e minacce... Ci volle molto per farlo sbottonare sul capitolo donne del Duce
non di decenni come faceva lui. Questa era la critica che più gli bruciava perché colpiva nel segno. Il difetto di Longanesi era un eccesso di fiuto e di genialità. Anticipava sempre tutti su tutto. Alla fine mi dette ragione. “Sai che facciamo?” disse. “Lo mettiamo in frigorifero, e lo ripubblichia- mo nel ’60”. Sono sicuro che lo avrebbe fatto, se ci fosse arrivato. Morì nel ’57, ad appena cinquantadue anni, quando la casa editrice era passata in altre mani, e di lui conservava soltanto il nome.
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