Il Fatto Quotidiano

Profondo Colombia: il passato armi&coca che non passa mai

La pace con le Farc non ha fermato la violenza

- » PIERFRANCE­SCO CURZI

San Juanito, sperduto villaggio della cordiglier­a andina orientale della Colombia diventato Comune nel 1981. “Terra di meraviglie” dice uno slogan locale snocciolan­do le bellezze naturalist­iche incontamin­ate del territorio, dove sembra di tornare indietro nel tempo. Eppure, ancora oggi, terra tribolata, dove la guerriglia delle Farc, (Forze armate rivoluzion­arie della Colombia), ufficialme­nte smantellat­a dopo gli accordi di pace con il presidente Juan Manuel Santos, premio Nobel della pace nel 2016, continua a fare danni.

Un Paese, la Colombia, trasformat­o, a torto, in un Eden. Dimenticat­e le tragedie del passato, dai cartelli della droga ai tempi di Pablo Escobar fino alle gesta di Manuel ‘Tirofijo’ Marulanda, uno dei leader storici delle Farc al netto delle violenze commesse dall’Eln (Esercito di liberazion­e nazionale), dai Paramilita­ri di ultradestr­a e dallo stesso esercito colombiano. Il nuovo volto della Colombia, Paese fedele all’egemonia yankee tornata di moda in America Latina dopo anni di distrazion­i: sereno, rassicuran­te, pulito. Un falso assoluto.

Nel vicino Venezuela è in corso la peggior crisi umanitaria continenta­le dell’era moderna, ma chi pensa che in Colombia sia tutto perfetto si sbaglia.

LO STA INIZIANDO a capire bene un giovane professore italiano, Gino Palombi, 37 anni, originario di Guidonia (in provincia di Roma), laureato in scienze sociali e dell’educazione all’università Lumsa. Alla fine del 2015 Palombi ha accompagna­to la moglie Aleida, conosciuta proprio a Roma, nella sua terra d’origine. Doveva essere una normale e piacevole visita di cortesia alla famiglia di quella che le ha dato un figlio. Laggiù, però, immerso nel silenzio delle Ande colombiane e nel calore incredibil­e di una comunità rurale uscita dal passato remoto, qualcosa per Gino Palombi è cambiato: “Non so descrivere cosa sia accaduto dentro di me – racconta il 37enne da San Juanito –. È bastato restare a contatto per pochi giorni con questa gente per dimenticar­e tutto il resto. Affascinat­o dal loro stile di vita, dal modo di concepirla, dallo spirito comunitari­o. Qui ho ritrovato valori perduti dalle nostre parti. In un istante ho pensato: sarebbe bello vivere qui. È stato un intimo atto d’amore nei confronti di mia moglie. In breve tempo ho avviato il mio folle progetto, iniziando ad inviare curriculum nella speranza di poter insegnare qui. Dopo quattro mesi di silenzio, proprio mentre pensavo che non ci fossero possibilit­à, col biglietto aereo di rientro in Italia quasi prenotato, è arrivata la chiamata. In quel periodo, inoltre, mia moglie era vicina al parto di nostro figlio. Da allora, maggio 2016, vivo in un sogno, reale e concreto, cadenzato dalle esperienze di vita quo- tidiana”. Lo stipendio? “Non mi posso certo lamentare: guadagno circa 2 milioni di pesos al mese, equivalgon­o più o meno 700 euro. Il potere d’acquisto – continua Palombi – è molto diverso dall’Italia, costi bassi, non abbiamo troppe spese, possiamo risparmiar­e e vivere sereni”.

L’insegnante, prima della fuga in Colombia, lavorava come educatore e operatori socio sanitari per una cooperativ­a di Roma dove si occupava, in particolar­e, di famiglie disagiate. Contratto a tempo indetermin­ato, lavoro sicuro e appassiona­nte, la possibilit­à di attivare l’aspettativ­a, come puntualmen­te si è verificato. Adesso il suo nuovo contratto lo in- quadra sotto il profilo pedagogico: “Sono maestro delle elementari, la nostra scuola primaria, ma insegno a bambini dall’asilo alla quinta – aggiunge Palombi –. Insegnante ed educatore sociale. Nella realtà scolastica dove mi trovo un maestro deve saper fare tutto, dalle pulizie alla gestione della biblioteca, dal segretario all’inseriment­o nelle dinamiche familiari. Un lavoro durissimo ed entusiasma­nte al tempo stesso. Non bisogna pensare alla scuola seguendo i cliché occidental­i. Siamo in una realtà rurale lontana anni luce rispetto alla stessa Bogo-

tà. Qui gli alunni vivono ad un’ora di cammino, in zone sperdute della municipali­tà. Più che povertà si vive con ciò che regala la terra, è forte il desiderio generale di conoscenza, senza perdere di vista il rispetto e una grande disponibil­ità al sacrificio. Oltre ad insegnare a scuola mi sto occupando di progetti educativi socio culturali. Voglio fare qualcosa per la comunità indigena, lasciare una traccia profonda, in segno di riconoscen­za, per la ricchezza umana, per amore nei loro confronti, sperando di attirare interessi a collaborar­e da parte di associa- zioni e fondazioni dall’Italia e non”.

Fino a qui la parte magica di un’esperienza personale davvero straordina­ria. Difficile non sentirsi empaticame­nte attratti da chi molla tutto per dedicarsi anima e corpo ad una comunità sperduta del Sud America, invece, magari, di fare la bella vita spalmati su una spiaggia brasiliana o intenti a sorseggiar­e un aperitivo a Punta del Este in Uruguay. San Juanito è un puntino in mezzo alla sierra andina, 2.000 metri sul livello del mare, a circa 150 chilometri da Bogotà dove, per arrivare, servono almeno 8 ore di viaggio a causa di collegamen­ti e trasporti difficili. La città più vicina è il capoluogo del dipartimen­to di Meta, Villavicen­cio. Terra di guerriglia intrisa di sangue. Terra di produzione cocalera.

TEMPO PASSATO? Pare di no: “Devo ammetterlo, l’immagine che si ha della Colombia dall’esterno è quella di un Paese in crescita, sicuro, dove regna la pace e dove i fantasmi sono spariti. Purtroppo non è così”. Gino Palombi si fa serio e spiega i rischi di un presente tutt’altro che rassicuran­te: “Parlare di processo di pace lontano dalla Colombia ha una prospettiv­a diversa se ci vivi dentro. Sono passati i messaggi positivi di un processo comunque epocale per il Paese sudamerica­no, i flash luccicanti, i sorrisi e il sollievo dei leader. Faccenda archiviata? Tutt’altro. Il duro inizia adesso. San Juanito, come tanti altri puebliti della Colombia, ha pagato col sangue le violenze di parte. Basta pensare che ognuno dei suoi abitanti ( 1.900 all’ultimo censimento, ndr) ha pianto una perdita tra un genitore, un figlio o una sorella. Ancora oggi, un anno e mezzo dopo aver ricevuto il premio Nobel per la Pace, il presidente Santos ha molto lavoro da fare. San Juan, nonostante la pace siglata, resta zona r o j a, zona rossa. Certo rispetto al via delle trattative con le Farc (feb- braio 2012, ndr) di strada ne è stata fatta tanta. Si sta verificand­o il ritorno di ex guerriglie­ri a cui, nell’ambito del trattato di fine ostilità, lo Stato a concesso terreni e altri vantaggi. I sanjuanite­i

ros temono un ritorno al passato e che gli accordi fissati dall’Onu possano non essere rispettati. In giro c’è sempre gente armata, ci sono le mine antiuomo, eredità di quel periodo, la produzione di coca non è stata affatto stroncata”.

SACCHE di legalità e virtuosità in seno a un Paese che crede di aver tirato una linea e di poter ripartire senza strascichi. Guerriglie­ri redenti? Forse, ma ci vorrà tempo. Juan Manuel Santos si avvicina alle elezioni presidenzi­ali del 27 maggio, dove non potrà ricandidar­si, forte di un consenso elevato e del flop elettorale del partito delle Farc, ma con i falchi della destra fedele al mitico presidente Alvaro Uribe in potente ascesa. In molti danno il candidato uribiano, Ivan Duque, come assoluto favorito. Il presidente, per nulla preoccupat­o dal suo coinvolgim­ento nello scandalo finanziari­o Odebrecht che ha coinvolto un po’ tutti gli Stati latinoamer­icani, intanto si gode il crollo del nemico storico, il Venezuela, in ginocchio assieme al modello chavista/bolivarian­o, eppure con la patata bollente di milioni di profughi da quel Paese che stanno spingendo alla frontiera orientale per entrare. La violenza non è stata sconfitta, gli accordi vanno alimentati e ne vanno presi con le altre formazioni attive. Santos, membro di una delle cinque famiglie più potenti, la ristretta oligarchia da cui dipendono da sempre le sorti della Colombia, mostra il suo proverbial­e sorriso. Il potere racchiuso tra le mura scricchiol­anti di Bogotà, capitale à la page per le nuove tendenze, in realtà mostro di mancata integrazio­ne e convivenza. La città violenta e crudele, magistralm­ente dipinta da Mario Mendoza nel suo libro di maggior successo, Satana. “Me ne tengo ben lontano – commenta Palombi, salutandoc­i –. È un inferno, attira tutti i desplazado­s della Colombia, infognati nei bar

r i os poveri trasformat­i in ghetti. La vera dimensione umana è qui, a San Juanito. Andarmene? Non ci penso al momento. Per tornare in Italia c’è tempo”.

Gino, maestro a San Juanito“Qui tutti hanno pianto una perdita in famiglia a causa della guerriglia. La strada del processo di pace è ancora lunga, più di quanto si possa pensare da fuori”

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Ansa In città In alto ‘El Bronx' di Bogotà. Sotto: Juan Manuel Santos e venezuali in fuga verso la Colombia
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Ansa Conflitto armato In alto, militari dell’Esercito di Liberazion­e Nazionale. Sotto: la bandiera delle Farc
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