Ora la battaglia del grano si fa tutta sull’export
Fallimenti, stati di crisi o processi di concentrazione hanno segnato il settore ancora in buona salute, ma che deve vedersela con la concorrenza di Turchia ed Egitto e con la qualità delle farine
Operai in lacrime e decine di bare di cartone sulle quali campeggiava il marchio Agnesi. Si chiudeva così, a fine 2016, la storia del più antico pastificio della storia, nato nel 1824 a Pontedassio (Imperia). Centinaia di operai licenziati e solo una decina ricollocati nel nuovo stabilimento di Fossano, dove oggi è il gruppo Colussi a produrre la pasta. Ai più sono, invece, sconosciuti altri fallimenti, stati di crisi o processi di concentrazione di decine di pastifici nel corso degli ultimi anni. Il Pastificio Bolognese, lo storico marchio della pasta all’uovo Dallari (fallito nel 2013, ora in mano alla Jewel srl), il Pastificio Lucio Garofalo ( l’azienda di Gragnano nel 2014 ha ceduto la maggioranza agli spagnoli di Ebro Foods), il Pastificio Amato (al termine di una procedura gestita dal Tribunale è stato acquisito nel 2014 da Giuseppe Di Martino), il pastificio Cerlacchia (ora di proprietà di Taste Italy Srl che fa solo pasta ripiena senza glutine) o il Pastificio Paone di Formia (attivo dal 1878, per una complessa vicenda giudiziaria è in amministrazione controllata) sono alcuni casi che dimostrano un’apparente contraddizione: mentre la pasta è simbolo del Made in Italy, tra i suoi ingranaggi c’è qualche granello di farina che fa scricchiolare il settore.
PARTIAMO dai numeri. Negli Anni 70, riferisce l’Aidepi (Associazione delle industrie del dolce e delle paste italiane), esistevano oltre 500 pastifici in Italia che hanno fatto la storia economica e sociale del Paese. Oggi, a distanza di 40 anni, se ne contano un centinaio, di cui i primi 10 da soli rappresenta- no oltre il 90% del mercato, con 7.500 addetti, 3,4 milioni di tonnellate di pasta prodotta ogni anno e un giro d’affari di 4,7 miliardi di euro. Ma con una sostanziale stagnazione dei consumi interni a causa delle nuove tendenze a tavola che, alla faccia della dieta Mediterranea, hanno messo al bando i carboidrati. Una fotografia, insomma, di un comparto maturo in cui però non si può parlare di crisi, perché a fallire sono solo le piccolissime aziende familiari, con il cognome e la dicitura “& figli” nel marchio, che non hanno resistito alla bassa redditività, alla continua ricerca delle materie prime, al progressivo processo di concentrazione delle imprese e alla competititività. “Quelle che, insomma, non si sono adattate al nuovo mercato e non hanno puntato sull’export”, spiega Antonio Casalini, presidente di UnionAlimentari. Basta pensare che le esportazioni negli ultimi anni sono volate oltre il 50%.
In pratica, per l’Aidepi, un piatto di pasta su 4 nel mondo e 3 su 4 in Europa sono italiani, mentre un terzo del grano duro viene importato soprattutto da Canada, Australia e Usa vi- sto che le 4 milioni di tonnellate che l’Italia produce ogni anno non sono sufficienti a garantire l’approvvigionamento alle aziende. E sta tutta qui la “crisi” sui cui da anni si avvita il settore. La materia prima della pasta è, infatti, protagonista di una battaglia che mette di fronte due visioni: gli agricoltori, rappresentati dalla Coldiretti che, per tenere alta la bandiera del Made in Italy e contrastare le speculazioni che hanno portato al crollo dei prezzi del grano italiano, hanno imposto l’etichettatura sulle confezioni dimostrando che anche i grandi marchi lo importano dall’estero (in Canada si utilizzano sostanze nocive, a partire dal glifosato, ma nei limiti di legge), e i pastai secondo i quali proprio “il mix dei due grani è quello vincente, perché aumenta la percentuale proteica della pasta rendendola più buona. In più – spiega Luigi Cristiano Laurenza dell’Aidepi, segretario dell’associazione – gli industriali non importano grano per ridurre il prezzo, visto che quello straniero costa il 15% in più”.
U N’ANALISI tu t t’altro che spietata: oggi si cerca una pasta più qualificata, come quella bio, integrale o per celiaci. E i pastifici che non si adeguano sono tagliati fuori. Ma quindi il settore sta bene? “Il saper fare è la certezza che consentirà di resistere alle tempeste congiunturali, alle fake news sulla pasta e a sbagliate mode alimentari”, spiega Luigi Cristiano Laurenza, segretario dell’Aidepi. Pastai che devono vedersela anche con la concorrenza di Turchia ed Egitto che producono pasta decente a prezzi stracciati anche grazie alle politiche incentivanti dei loro governi. Intanto a tenere banco è ancora l’etichettatura destinata a durare poco perché a breve sarà superata da un regolamento europeo, mentre la Barilla – riporta Il Salvagente – ha appena annunciato il taglio delle importazioni di grano canadese del 35%, causato dalle continue preoccupazioni dei consumatori sull’uso del glifosato.
ADDIO ALLA TRADIZIONE FAMILIARE Negli Anni ‘70 in Italia esistevano oltre 500 pastifici Oggi, a distanza di 40 anni, se ne contano un centinaio