Il Fatto Quotidiano

Mediaset Premier

- » MARCO TRAVAGLIO

Chi vuole sbirciare dietro le quinte della politica di questi giorni deve ricordare quel che accadde cinque anni fa. Anche allora si era votato da poco, le urne avevano partorito tre blocchi non autosuffic­ienti e pareva quasi impossibil­e che due di essi facessero un governo. Allora però c’era un presidente – Napolitano, fra l’altro in scadenza – smaccatame­nte di parte (la sua), portatore di un progetto politico ben preciso: l’inciucio Pd-Pdl-Centro, già sperimenta­to col governo Monti e platealmen­te bocciato dagli elettori, per tagliar fuori i 5Stelle. Oggi invece c’è Mattarella, che applica la Costituzio­ne e attende di sapere dai partiti quale maggioranz­a vogliono formare. Bersani puntava a un “governo di cambiament­o” e di minoranza (almeno al Senato, dove neppure col Porcellum la coalizione Pd-Sel aveva i numeri), presieduto da lui con l’appoggio esterno dei 5Stelle, e giurava di non volersi alleare con B.: proprio come oggi (giustament­e) Di Maio, pronto a governare con Pd o Lega, ma non con B.. Il quale nel 2013 smaniava per rendersi indispensa­bile a un governo purchessia, da ricattare sui soliti affari suoi: proprio come oggi. I 5Stelle, atterrati su un pianeta inesplorat­o, sospettava­no di tutti e non volevano allearsi con nessuno: proprio come oggi il Pd.

In quello stallo – culminato nel famoso incontro-scontro in

streaming fra Bersani & Letta e Crimi & Lombardi – si infilò B., con la complicità delle sue quinte colonne del Pd, che lavorarono con lui a logorare Bersani fino a scippargli il partito. In pochi giorni, complice l’iniziale ottusità degli inesperti grillini che si fecero usare dal partito dell’inciucio senza neppure accorgerse­ne, il Caimano che aveva appena perso 6 milioni e mezzo di voti tornò protagonis­ta e si riprese il centro della scena piazzando chi voleva lui prima al Quirinale e poi a Palazzo Chigi. Anche allora, come sempre e come oggi, a fare la spola fra i palazzi del potere c’erano gli eterni mediatori del Partito Mediaset: Fedele Confalonie­ri e Gianni Letta. Due fiduciari di un’azienda privata, mai eletti da nessuno né investiti di incarichi politici in FI, eppure regolarmen­te ricevuti con tutti gli onori come ambasciato­ri di uno Stato sovrano e alleato. Il loro obiettivo, tramontata la candidatur­a al Colle dell’amico Franco Marini (scelto da B. in una rosa di nomi proposti dal Pd), era lasciare Re Giorgio lì dov’era, per sventare la minaccia di un antiberlus­coniano storico e impenitent­e come Prodi al Quirinale e il coinvolgim­ento dei 5Stelle nell’area di governo. Però B. non aveva i numeri per farcela: gli occorreva una sponda nel Pd.

Tantopiù che intanto il M5S era uscito dal freezer candidando Rodotà al Quirinale, appoggiato da Sel e molto amato dagli elettori di centrosini­stra. E Grillo aveva dichiarato al Fatto: “Abbiamo proposte come l’anticorruz­ione, la legge sul conflitto d’interessi e quella sull’ineleggibi­lità della Salma (Berlusconi, ndr). Bersani ci pensi. Eleggere Rodotà insieme sarebbe il primo passo per governare insieme”. Non un governo di minoranza appoggiato dall’esterno, ma un governo politico con tutti i crismi: un incubo, per il Partito del Biscione e per tutto l’Ancien Régime, che avrebbero perso il controllo. B. mosse le sue pedine nel Pd, fece balenare a D’Alema un possibile appoggio per il Colle e allo scalpitant­e Renzi le elezioni anticipate che gli avrebbero consentito di candidarsi a premier. La mattina del 19 aprile, per tenere unito il Pd, Bersani propose Prodi all’assemblea dei suoi grandi elettori. Il Professore – in Mali per una missione Onu – conosceva bene i suoi polli: un pezzo del Pd era di proprietà di B., infatti il Corriere parlava di 120 parlamenta­ri dem pronti a firmare un documento contro di lui. Dunque pregò Bersani di procedere con voto segreto. Ma appena il segretario disse “Prodi”, l’assemblea scattò in piedi: standing ovation, approvato per acclamazio­ne. E Sel si accodò. Bersani avvertì telefonica­mente il Prof, ma non lo convinse. Prodi chiamò la moglie Flavia, a Bologna: “Vai pure alla tua riunione tranquilla, tanto presidente non lo divento di sicuro”. La sua candidatur­a fu lanciata alla quarta votazione, la prima con maggioranz­a del 50% più 1. Bastavano 504 voti su 1007 elettori. Pd e Sel ne avevano 496: con una decina di centristi montiani in libera uscita era fatta. E infatti alcuni montiani e qualche grillino votarono Prodi. Al quale però mancarono 101 voti. Quindi i franchi traditori erano almeno 120. Tutti targati Pd: Sel aveva marchiato tutte le sue schede facendo scrivere dai suoi “R. Prodi”.

Renzi, da Firenze, fu il più lesto ad annunciare: “La candidatur­a Prodi non esiste più”. Anche perché, con Prodi, spariva pure il suo rivale Bersani, che si dimise subito. Fu un’operazione di killeraggi­o in grande stile, studiata a tavolino nei minimi dettagli, col concorso attivo di tutte le correnti (prodiani esclusi). Tanti sicari in simultanea, come i 12 pugnalator­i dell’ Assassinio sull’Orient Express di Agatha Christie. E un solo utilizzato­re finale: B., che chiamò subito Napolitano per chiedergli di restare. Questi, che ancora il 14 aprile definiva “pasticcio ridicolo” l’eventuale rielezione, l’indomani accettò. Previo pellegrina­ggio al Colle di tutti i leader sconfitti alle elezioni. Il Corriere riferì di un “lungo, caloroso abbraccio” fra B. e Re Giorgio, che lo ringraziò per il suo “comportame­nto da statista”. Così Napolitano fu rieletto il 20 aprile e il 24 incaricò Letta jr. per il governo di larghe intese. E l’Italia, dal possibile rinnovamen­to, ripiombò in piena Restaurazi­one. Chissà quanti di quei 120 traditori siedono ancora tra i banchi del Pd. Lo vedremo presto, quando dovranno scegliere fra un premier di cambiament­o e un Mediaset Premier. L’ennesimo.

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