“Dimmi che dischi ascolti e ti dirò chi sei veramente”
Nel programma il comico invita i vari ospiti a raccontare se stessi attraverso i long playing della loro vita
“I dischi sono fotografie virtuali dei loro proprietari: sono ideologie”. Questo aforisma di Theodor W. Adorno è perfetto per raccontare I miei vinili, il delizioso programma in onda su Sky Arte HD e Sky1 condotto da Riccardo Rossi e scritto da lui con Giulia Rossi e Alberto Di Risio da un’idea del produttore Claudio Donato.
Rossi è un maniaco. Tecnicamente, è affetto da feticismo maniacale con tendenza cumulatoria. A casa ha una libreria piena di musicassette autoprodotte classificate per anno, colore e casa di produzione. Dentro Goody music, lo storico negozio di dischi al Flaminio dove lavorava a 18 anni, lo stesso che con ossessiva meticolosità è stato riprodotto nella scenografia de I miei vinili, ha dei “pezzi” che mostra fiero (ci conduce sul retro a vedere una cassa di un certo tipo esclusivissimo; poi un’altra, di legno; poi, e gli brilla negli occhi l’allucinazione del collezionista, il giradischi originale usato in trasmissione).
“Io vengo dalla musica classica”, dice. “A casa mia era vietato comprare altri dischi. Quando portai a casa il 45 giri di Felicità tà tà di Raffaella Carrà mia madre me lo fece riportare indietro. Andavo all’Auditorium a sentire i concerti con la mia prozia”. Un giorno, nel ’79, sente le prime note di Don't Stop ’Til You Get Enoughdi Michael Jackson. È “l’esplosione di una supernova”, il dionisiaco che irrompe nella sua vita. Il paradiso sottile di Mozart squassato dalle noterelle di un brano barbaro, trascinante. “Sono venuto qui. Il titolare, Claudio (Donato, n
dr) mi ha portato in una sala di registrazione. Immagina un ragazzo di 17 anni che entra in uno studio e vede le trombe, la chitarra, il basso, la batteria. Il batterista sul charleston consumava le bacchette, si rompevano. Dal mondo rarefatto, borghese, dell’Auditorium entravo in questo mondo fisico, ormonale”.
Il ritorno affettuoso ai dischi è un fenomeno planetario. Nel 2017, per la prima volta nella storia, la vendita dei vinili nel Regno Unito ha superato i download di mp3. “Abbiamo pensato a un format dove un personaggio noto racconta la sua adolescenza attraverso 5 vinili”. (Tra i 12 protagonisti, Margherita Buy, Giovanni Malagò, Gianni Minoli, Walter Veltroni).
“Questo mondo mi ha richiamato a sé. Ho ricomprato qui la testina, le casse, l’amplificatore. Dopo i 50 anni rimetti a posto quello che avevi”. È la poetica del “ricomporre l’infranto”, espressione di Walter Benjamin, la traccia rossa de I
miei vinili. Nell’amigdala, nel sistema limbico, la musica riattiva le emozioni come un profumo. “Il vinile ha riportato un suono più caldo. E una meccanica, una ritualità. Apri la copertina di cartone; prendi il disco con cautela; lo metti sul piatto; togli la polvere; scegli la velocità, 33 o 45; levi il ferma-braccetto; metti il braccetto (prima hai regolato l’anti
skating ); lo appoggi”. Alza la voce: “Non si sente la cassa destra, il cavetto, rosso, nero, vai dall’elettricista, quanto è lungo, devi cambiare la cinghia... Ti impegna fisicamente: finalmente faccio qualcosa”.
È questo “qualcosa”, nell’epoca dell’ascolto random, erratico, immateriale, il magnetismo del disco. “Dentro c’è un valore aggiunto. C’è il surplus dell’emozione dell’epoca”.
L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità digitale ha sottratto alle cose la loro aura, quell’incanto unico, imperfetto e ruvido dell’esemplare. “Quando uscì Sgt.
Pepper’s c’era la fila fuori. Stavo facendo un puzzle quando l’ho sentito. Il lato A mi è entrato dentro come una ninna nanna. Ogni volta che lo sento, io rivedo quel puzzle, il cielo diviso dalla terra, i quattro angoli messi da parte”.
Poi iniziava quell’azione ignota a un nativo digitale che era l’ascolto. “Ascoltavi. Non squillavano i cellulari, non c’erano i social, non succedeva niente”.
È la qualità del disco fisico di fluttuare sulla superficie delle giornate, come la luce solare sul capo dell’onda, ad affascinare Rossi. “L’album era un’opera. Le cose che ripeto a memoria in trasmissione le ho lette migliaia di volte sulla copertina. L’ascolto shuffle fa perdere la sequenza, la scaletta era una regia”. Rossi non è un misoneista: “Io amo la tecnologia. Ma mi interessa la sua applicazione umana. A casa di Boncompagni il sabato pomeriggio ‘scavettavamo’: spostavamo le tastiere, il mixer, fino a mezzanotte”. Forse ci siamo un po’ stufati dell’epica dell’identità multipla: “Basta social: che un vino è cattivo te lo devi imparare. Che lì la amatriciana è buona devi saperlo senza cercare su Google. Sbaglia strada, senza navigatore, leggi i cartelli, perditi”. Il futuro è analogico, e pieno d’aura.
L’album era un’opera con dietro una liturgia: l’ascolto shuffle fa perdere la sequenza, la scaletta era una regia