“Doveva tutelare i migranti” La nave Ong torna in mare
Ragusa Il giudice dissequestra la spagnola Open Arms che il 15 marzo aveva portato i profughi a Pozzallo anziché consegnarli alla marina libica
Potrà tornare in mare la Open arms, nave dell’ omonima Ong spagnola, attiva nel salvataggio di migranti nel Mediterraneo centrale, sequestrata a Pozzallo il 18 marzo scorso su richiesta della Dda di Catania. Un provvedimento che conteneva una dura accusa per gli operatori umanitari, associazione per delinquere finalizzata al favoreggiamento dell’ immigrazione irregolare. Ieri ilGip di Ragusa – che il 28 marzo aveva ricevuto il fascicolo dai colleghi di Catania, dopo l’esclusione dell’ipotesi di associazione e l’invio per competenza alla procura ordinaria – ha rigettato la richiesta di sequestro, liberando la nave dal provvedimento cautelare. Cade così – almeno in questa fase – l’accusa di violazione del Testo unico sulla migrazione: per il Gip la Ong ha agito in stato di necessità, evitando di rimandare i migranti in Libia, paese dove sono a rischio i diritti umani fondamentali.
L’ACCUSA contro la Proactiva Open Arms si basa su tre informative redatte dallo Sco della Polizia di Stato e dallo Scico della Guardia di finanza (documenti alla base dell’ipotesi di reato, poi caduta a Catania, di associazione per delinquere), dalla Guardia costiera e dalla Marina militare. L’organizzazione umanitaria è stata indagata per non aver rispettato gli ordini di consegna dei migranti, già salvati in mare durante una serie di operazioni del 15 marzo scorso, alle motovedette della Guardia costiera libica e per non aver chiesto lo sbarco dei 218 naufraghi a Malta, dirigendosi verso la Sicilia.
Le note del Comando generale del corpo delle Capitanerie di porto citate dal Giudice di Ragusa affermano che l’af- fidamento del coordinamento delle operazioni di salvataggio ai libici deriva dall’esistenza di una regione Sar (area di competenza di uno Stato per il Search and Rescue) dichiarata da Tripoli il 14 dicembre dello scorso anno. Il riconoscimento della competenza libica non è ancora disponibile sui database dell’Organizzazione marittima internazionale Imo. Fatto che – secondo le note del Comando generale delle capi- tanerie di porto citate dal Gip – non “toglie efficacia costitutiva e riconoscimento alla suddetta dichiarazione Sar”. Per la Guardia costiera “le funzioni e le operazioni di ricerca e soccorso – si legge nel decreto di dissequestro – vengono svolte di fatto dalla Libyan Navy Coast Guard”. La sola esistenza di una Sar zone libica non è però sufficiente per giustificare la consegna dei migranti alle motovedette di Tripoli, aggiunge il giudice di Ragusa. Le convenzioni i n te r n az i o na l i prevedono che i naufraghi una volta salvati devono essere portati in un “posto sicuro” ( Place of safety). Nel caso dei migranti questo luogo “comprende necessariamente il rispetto dei diritti fondamentali delle p er s on e ”, contesto sicuramente estremamente critico per quanto riguarda la Libia, “luogo dove avvengono gravi violazioni dei diritti umani”. Dunque la Open Arms non consegnando i migranti ai libici ha rispettato il principio di non respingimento, evitan- do “un pericolo di un danno grave alla persona”, agendo in “stato di necessità”. Per quanto riguarda l’accusa di non aver sbarcato i migranti a Malta, secondo il Gip su questo punto c’è una “situazione di fluidità e incertezza”, dovuta anche alla mancata ratifica degli ultimi emendamenti ai trattati sui salvataggi da parte delle autorità maltesi.
Il decreto del Gip di Ragusa ricostruisce nel dettaglio i drammatici momenti del salvataggio del 15 marzo, quando la Open arms si trovò di fronte una unità libica, che intimava – “minacciando di utilizzare le armi” – la consegna delle donne e dei bambini appena salvati. Il capitano lanciò l’allarme antipirateria, chiedendo il supporto della Marina italiana. La risposta fu netta: “Rivolgetevi a Madrid”. Su questo episodio +Europa ha presentato una interrogazione, chiedendo di avere risposte sulle minacce dei libici e sulla sorte dei migranti riportati a Tripoli.
Le convenzioni Il tribunale riconosce che i rifugiati vanno sbarcati in un “posto sicuro” La Libia non lo è