Il nome di Berlusconi scritto nella sentenza È la vittoria dei “matti”
Il patto con Cosa Nostra I pubblici ministeri hanno dimostrato di avere gli attributi, mentre troppi hanno delegittimato l’inchiesta
Se la sentenza della Corte di assise di Palermo fosse una canzone sarebbe The fool on the hill dei Beatles. Se fosse un libro sarebbe L’ordine del tempo di Carlo Rovelli (Adelphi, 2017), dove si racconta come spesso la società dei benpensanti giudichi folle l’unico uomo che vede chiaro il confine tra il vero e il falso, il giusto e lo sbagliato.
Come il folle sulla montagna di Paul Mc Cartney, i pm Vittorio Teresi, Antonino Di Matteo, Roberto Tartaglia e Francesco Del Bene, per sei lunghissimi anni hanno continuato a sostenere le loro tesi nell’aula bunker del carcere dell’Ucciardone.
Da soli. Fisicamente e culturalmente. Politici e giornalisti berluscon-renziani hanno potuto ignorarli, irriderli e persino impunemente sostenere che a Palermo era in corso una messinscena con fini politici. I grandi giornali (con l’eccezione di Salvo Palazzolo di Repubblica) hanno seguito distrattamente il processo.
Come il matto sulla montagna che ogni giorno vede il sole andare giù e – a differenza degli altri – intuisce che è la terra a girare, così Di Matteo e colleghi hanno continuato a sostenere tesi “folli” nel clima culturale dell’Italia dei “saggi”.
Sulla prestigiosa rivista Giurisprudenza PenaleGiovanni Fiandaca, il principe dei penalisti italiani, pubblicava un saggio ri-titolato da Il Foglio con un sobrio “Il processo sulla trattativa è una boiata pazzesca”. Mentre il presidente della Repubblica in carica, Giorgio Napolitano, chiedeva e otteneva dalla Corte Costituzionale la distruzione delle telefonate nelle quali si occupava del caso di un suo amico che non gradiva i pm di Palermo.
Ci vogliono davvero robusti attributi per andare avanti come se nulla fosse in questo clima. L’au- tore del manuale di diritto sul quale si sono formati generazioni di magistrati (compresi quelli della Trattativa) ammetteva sul piano del fatto che ci fossero ombre di trattativa (“elementi di forte ambiguità e interessi non sempre nobili”). Però poi sul piano del diritto assolveva tutti. La sua domanda retorica era: “Ma ciò basta a modificare il carattere di intrinseca liceità (se non di doverosità) dei tentativi di arginare il rischio stragista, trasformando i negoziatori istituzionali in una cricca privata in combutta con la mafia per il perseguimento di interessi egoistici e ignobili? Verosimilmente, non basta”.
E invece basta. Basta eccome. Basta a condannare a dodici anni Marcello Dell’Utri e i carabinieri delRosdiall ora: Mario Morie Angelo Sub ranni .“Basta !” hanno continuato a gridare per sei lunghi anni, soli e folli sulla loro collina i pm.
Basta! Ha detto ieri la Corte di assise di Palermo presieduta da un giudice di grande esperienza come Alfredo Montalto. Bisognerà attendere le motivazioni per capire meglio ma una cosa già si può dire: anche in un paese come l’Italia per essere condannati basta che un politico o un carabiniere veicoli la minaccia della mafia tesa a far flettere lo Stato ai suoi voleri.
E aggiungiamo noi che questa tesi, come quella della terra che gira, è meno assurda di quella del professore Fiandaca che arriva a ipotizzare che la condotta dei carabinieri possa essere addirittura “doverosa”. È folle pensare che un pezzo dello Stato non possa andare a trattare con la mafia che sta uccidendo altri pezzi dello Stato? È folle pensare che debba essere condannato chi tratta all’insaputa di altri che rischiano e perdono la vita? La Corte d’Assise di Palermo ieri ha affibbiato a Dell’Utri e ai carabinieri l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. È folle pensare che chi tratta debba essere espulso per sempre dallo Stato? Per la Corte non è folle.
Marcelllo Dell’Utri è responsa- bile del reato di minaccia a corpo politico dello Stato solo per il periodo del primo governo Berlusconi, 1994. Mentre i carabinieri sono ritenuti colpevoli fino al 1993. Dell’Utri insomma avrebbe preso la staffetta della Trattativa dai carabinieri nel passaggio alla Seconda Repubblica.
Dopo la sentenza ieri è ripartito il gioco del pazzo sulla collina.
La sentenza secondo gli “addetti ai lavori” citati dall’Ansa sarebbe “anomala” perché riporta espressamente il nome dell’allora premier Silvio Berlusconi. Non potevano i giudici – si chiedono pensosi gli addetti ai lavori – fare un verdetto in cui il terminale delle minacce veicolate da Dell’Utri era un fantasma? Non potevano coprire il nome di Berlusconi con una foglia di fico?
Diversa la reazione di un gruppo di cittadini comuni raccolti nell’a s s ociazione Agende Rosse, quella nata su input di Salvatore Borsellino per chiedere la verità sulle stragi di mafia. Ieri erano tutti schierati con la loro maglietta da “scorta civica” del pm Di Matteo, il magistrato più minacciato dalla mafia e più “dimenticato” dalle istituzioni.
Per loro la stranezza non è il verdetto con il nome di Berlusconi ma è Berlusconi al Quirinale. “Dopo questa sentenza il presidente Mattarella, fratello di una vittima della mafia – ci dicono in coro – non dovrebbe più ricevere Berlusconi per le consultazioni”. Il sole splende sul piazzale dell’aula bunker del carcere Pagliarelli. Uno li guarda con le loro magliette colorate e le agende rosse in mano. Per un attimo i pazzi non sembrano loro.
Politici e cronisti berlusconianrenzianih anno potuto ignorare e irridere questi magistrati
Sentenza sconnessa con la realtà: è assurdo e ridicolo accostare il mio nome alla Trattativa Stato-mafia Le parole del pm Di Matteo sono di una gravità senza precedenti
SILVIO BERLUSCONI