LA DIGNITÀ PASSA DA UN REDDITO
Èobbligo della Repubblica ed è nostra corresponsabilità costruire e promuovere soluzioni e strumenti che rispondano all’urgenza di garantire a tutti e tutte il “diritto all’esistenza”. Siamo partiti da qui cinque anni fa, quando l’aumento della povertà e delle disuguaglianze nel nostro Paese iniziava a raggiungere livelli mai visti nella storia repubblicana. La proposta di introdurre anche nel nostro Paese una forma di sostegno al reddito, che abbiamo chiamato “Reddito di Dignità”, risponde a questa esigenza irrinunciabile.
QUELLA PROPOSTA è stata costruita insieme a centinaia di associazioni, cooperative, parrocchie, comitati, istituzioni locali, centri di ricerca, cercando di valutare le esperienze migliori, i limiti ed i vantaggi. Sulla nostra proposta convergevano nello scorso Parlamento il gruppo del Movimento Cinque Stelle, gli ex
Sel ed una parte minoritaria del Pd. Nonostante questo, il Parlamento e i governi di questi ultimi anni hanno accuratamente evitato di discuterne in aula. I risultati sono senza precedenti: quasi 5 milioni di persone in povertà assoluta, 9 in povertà relativa, oltre 18 a rischio esclusione sociale, 12 che hanno smesso di curarsi, 5 working poor, più di un milione di minori in povertà assoluta, il 48 per cento di analfabeti funzionali, il 17,6 per cento di dispersione scolastica. Eppure, con la crisi il numero dei miliardari è triplicato mentre le mafie continuano a fare affari ancor più di prima.
I SOLDI per il reddito di dignità ci sono. Abbiamo calcolato, incrociando i dati Istat con quanto stabilito dall’articolo 34 della Carta di Nizza, che la cifra necessaria sia intorno ai 15 miliardi. Per finanziarlo possiamo usare i 9,1 miliardi di euro utilizzati per gli 80 euro, che non sono andati agli incapienti e non hanno avuto impatti sulla domanda aggregata. Così come i 12,5 miliardi di decontribuzione fiscale regalati per il Jobs Act, non hanno creato buona occupazione e potrebbero essere utilizzati diversamente. Senza nuove tasse e attraverso la fiscalità generale possiamo investire, come in altri Paesi, la somma necessaria per restituire dignità a milioni di cittadini, rilanciando domanda aggregata e coesione sociale. Reddito e lavoro possono e devono essere coniugati insieme.
C’è una relazione tra aumento delle disuguaglianze, politiche di austerità, rafforzamento delle mafie, aumento della corruzione, crescita delle paure e della xenofobia. Quello che deve preoccuparci è che chiunque andrà al governo continui con le politiche di austerità, con i tagli al sociale, con il rientro ottuso sul debito senza porsi domande del perché sia esploso proprio nel 2011. Il governatore Ignazio Visco lo scorso 10 febbraio ha confermato in conferenza stampa che “nessuno toccherà il vangelo delle riforme che serve a garantire la crescita”. L’austerità serve dunque a garantire un tipo di crescita che è la più bassa d’Europa, ci fa produrre solo per le esportazioni, ci impedisce di immaginare una nuova base produttiva ecologicamente orientata, arricchisce quelli già ricchi e continua a impoverire ceti medi e popolari.
Se si vuole fare il reddito minimo garantito o iniziare a introdurre forme di red- dito di base, bisogna distaccarsi dalle politiche di austerità e riformare in maniera innovativa il welfare, rimettendo al centro le politiche sociali. L’Italia è l’unico Paese nell’Ue a non avere una misura di sostegno al reddito. Il Reddito di inclusione (Rei) introdotto dal governo Renzi seleziona soltanto una parte dei poveri assoluti senza peraltro garantire loro un’esistenza libera e dignitosa. LA NOSTRA PROPOSTAè coerente con le indicazioni sovranazionali e le esperienze nazionali perché pone al centro la valorizzazione e l’autonomia di scelta. Ma soprattutto salvaguardia i principi irrinunciabili che caratterizzano un regime di reddito minimo garantito, così come stabilito dalle istituzioni europee, a partire dalle risoluzioni e raccomandazioni che si sono succedute dal 1992. Tra questi principi irrinunciabili vi sono: 1) l’individualità della misura; 2) la non vessazione del beneficiario attraverso stringenti contropartite e forme di condizionamento; 3) l’accessibilità per coloro che ne hanno diritto; 4) la residenza e non la cittadinanza; 5) il diritto a servizi sociali di qualità oltre al beneficio economico; 6) la durata; 7) l’ammontare del beneficio.
Su questa proposta serve un grande dibattito dentro e fuori dal Parlamento, che sia innanzitutto non tecnico, ma su che idea di società, di civiltà e di Paese vogliamo costruire. Per leggere la complessità ma anche le opportunità della fase storica in cui siamo. *coordinatore Rete Numeri Pari