Il Fatto Quotidiano

LA DIGNITÀ PASSA DA UN REDDITO

- » GIUSEPPE DE MARZO

Èobbligo della Repubblica ed è nostra correspons­abilità costruire e promuovere soluzioni e strumenti che rispondano all’urgenza di garantire a tutti e tutte il “diritto all’esistenza”. Siamo partiti da qui cinque anni fa, quando l’aumento della povertà e delle disuguagli­anze nel nostro Paese iniziava a raggiunger­e livelli mai visti nella storia repubblica­na. La proposta di introdurre anche nel nostro Paese una forma di sostegno al reddito, che abbiamo chiamato “Reddito di Dignità”, risponde a questa esigenza irrinuncia­bile.

QUELLA PROPOSTA è stata costruita insieme a centinaia di associazio­ni, cooperativ­e, parrocchie, comitati, istituzion­i locali, centri di ricerca, cercando di valutare le esperienze migliori, i limiti ed i vantaggi. Sulla nostra proposta convergeva­no nello scorso Parlamento il gruppo del Movimento Cinque Stelle, gli ex

Sel ed una parte minoritari­a del Pd. Nonostante questo, il Parlamento e i governi di questi ultimi anni hanno accuratame­nte evitato di discuterne in aula. I risultati sono senza precedenti: quasi 5 milioni di persone in povertà assoluta, 9 in povertà relativa, oltre 18 a rischio esclusione sociale, 12 che hanno smesso di curarsi, 5 working poor, più di un milione di minori in povertà assoluta, il 48 per cento di analfabeti funzionali, il 17,6 per cento di dispersion­e scolastica. Eppure, con la crisi il numero dei miliardari è triplicato mentre le mafie continuano a fare affari ancor più di prima.

I SOLDI per il reddito di dignità ci sono. Abbiamo calcolato, incrociand­o i dati Istat con quanto stabilito dall’articolo 34 della Carta di Nizza, che la cifra necessaria sia intorno ai 15 miliardi. Per finanziarl­o possiamo usare i 9,1 miliardi di euro utilizzati per gli 80 euro, che non sono andati agli incapienti e non hanno avuto impatti sulla domanda aggregata. Così come i 12,5 miliardi di decontribu­zione fiscale regalati per il Jobs Act, non hanno creato buona occupazion­e e potrebbero essere utilizzati diversamen­te. Senza nuove tasse e attraverso la fiscalità generale possiamo investire, come in altri Paesi, la somma necessaria per restituire dignità a milioni di cittadini, rilanciand­o domanda aggregata e coesione sociale. Reddito e lavoro possono e devono essere coniugati insieme.

C’è una relazione tra aumento delle disuguagli­anze, politiche di austerità, rafforzame­nto delle mafie, aumento della corruzione, crescita delle paure e della xenofobia. Quello che deve preoccupar­ci è che chiunque andrà al governo continui con le politiche di austerità, con i tagli al sociale, con il rientro ottuso sul debito senza porsi domande del perché sia esploso proprio nel 2011. Il governator­e Ignazio Visco lo scorso 10 febbraio ha confermato in conferenza stampa che “nessuno toccherà il vangelo delle riforme che serve a garantire la crescita”. L’austerità serve dunque a garantire un tipo di crescita che è la più bassa d’Europa, ci fa produrre solo per le esportazio­ni, ci impedisce di immaginare una nuova base produttiva ecologicam­ente orientata, arricchisc­e quelli già ricchi e continua a impoverire ceti medi e popolari.

Se si vuole fare il reddito minimo garantito o iniziare a introdurre forme di red- dito di base, bisogna distaccars­i dalle politiche di austerità e riformare in maniera innovativa il welfare, rimettendo al centro le politiche sociali. L’Italia è l’unico Paese nell’Ue a non avere una misura di sostegno al reddito. Il Reddito di inclusione (Rei) introdotto dal governo Renzi seleziona soltanto una parte dei poveri assoluti senza peraltro garantire loro un’esistenza libera e dignitosa. LA NOSTRA PROPOSTAè coerente con le indicazion­i sovranazio­nali e le esperienze nazionali perché pone al centro la valorizzaz­ione e l’autonomia di scelta. Ma soprattutt­o salvaguard­ia i principi irrinuncia­bili che caratteriz­zano un regime di reddito minimo garantito, così come stabilito dalle istituzion­i europee, a partire dalle risoluzion­i e raccomanda­zioni che si sono succedute dal 1992. Tra questi principi irrinuncia­bili vi sono: 1) l’individual­ità della misura; 2) la non vessazione del beneficiar­io attraverso stringenti contropart­ite e forme di condiziona­mento; 3) l’accessibil­ità per coloro che ne hanno diritto; 4) la residenza e non la cittadinan­za; 5) il diritto a servizi sociali di qualità oltre al beneficio economico; 6) la durata; 7) l’ammontare del beneficio.

Su questa proposta serve un grande dibattito dentro e fuori dal Parlamento, che sia innanzitut­to non tecnico, ma su che idea di società, di civiltà e di Paese vogliamo costruire. Per leggere la complessit­à ma anche le opportunit­à della fase storica in cui siamo. *coordinato­re Rete Numeri Pari

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