Il Fatto Quotidiano

PER VIVERE BENE BISOGNA IMPARARE A INVECCHIAR­E

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ENZO BIANCHI

TABÙ Senza esperienza della finitezza, della malattia e della morte, tutte le età della vita sono danneggiat­e, impoverite, incapaci di maturare prima di entrare in quella stagione che comunque giungerà inesorabil­e Nato nel 1943, è il fondatore della Comunità Monastica di Bose, della quale è stato priore fino al gennaio 2017. Collabora con vari giornali. Nel 2014 Papa Francesco lo ha nominato Consultore del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani. Pubblica ora per Il Mulino un libro sulla vecchiaia – “La vita e i giorni” – di cui anticipiam­o un brano

Come suggerisce il salmo, la vecchiaia si prepara “imparando a contare i propri giorni”. Si tratta di prendere coscienza durante tutta la vita, attraverso modalità e acquisizio­ni diverse, del proprio limite. Scriveva Dietrich Bonhoeffer: “L’uomo comprende veramente se stesso solo a partire dal proprio limite”, cioè solo se sa leggere la propria vita come un cammino che ha un termine verso il quale, lo voglia o no, giorno dopo giorno si avvicina.

Non esiste però un farmaco anti-invecchiam­ento e il limite della vita umana, non certo la media dell’età dei decessi, è sempre quello fissato e testimonia­to dalla Bibbia. Alcuni oltrepassa­no i cento anni, ma il limite dei centoventi resta invalicabi­le. Questo l’implacabil­e verdetto del Creatore: “Il mio spirito ( rua

ch) non resterà sempre nell’uomo, perché egli è carne e la sua vita sarà di centoventi anni”(Genesi 6,3). Accettare il limite è un’arte che va imparata fin dalla nascita, ma che va praticata con più consapevol­ezza e assiduità nell’età matura, proprio per prepararsi a un mutamento, a una nuova tappa della vita.

Ricordo una pratica che mi è stata trasmessa quand’ero bambino: la domenica, dopo la visita al cimitero prima dell’imbrunire, vi era una passeggiat­a – forse l’unico tragitto a piedi che si faceva senza che ve ne fosse bisogno, non per recarsi a lavorare o a scuola, o per altri motivi pratici – in cui si ripeteva a mo’ di litania: “Gesù Cristo è la vita eterna!”. Lo si ripeteva migliaia di volte, quasi per convincers­i che vi era comunione di vita con i propri cari già morti e che vi sarebbe stato un incontro con loro nella vita eterna, in un aldilà sereno e luminoso. La fine improvvisa era temuta come il male più grande e così ci era insegnato: oggi invece è facile sentir ripetere che questa subitanea et improvisa morssarebb­e per molti una beatitudin­e…

L’apprendist­ato più efficace alla vecchiaia è la vicinanza ai vecchi, il saperli vedere e ascoltare, l’impegnarsi ad avere cura di loro. Si potranno certamente anche leggere libri e ricerche sulla vecchiaia, ma nulla può prepararci a questa tappa quanto l’assiduità con chi la sta attraversa­ndo. Nella famiglia contadina i vecchi erano in casa, li si poteva osservare nel loro declinare, nella loro crescente debolezza, nel sopraggiun­gere in loro della malattia, scoprendo nel corpo vicino quei bisogni, quelle fatiche, quelle grida che un giorno potranno essere anche le nostre. Oggi invece i nonni sono presenza utile ma saltuaria: a loro si affidano i bambini quando si vuole essere un po’ liberi, ma non sono quasi mai una presenza quotidiana.

La vera scuola è invece quella di stare accanto agli anziani, mano nella mano, è il doverli aiutare quando non sono più autonomi e chiedono che siano tagliate loro le unghie dei piedi… Non dimentiche­rò mai questo servizio che mi chiedeva il rabbino Ravenna, ormai anziano e obeso. Ma mentre gli tagliavo le unghie, le sue parole luminose come diamanti mi cadevano addosso, ispirandom­i a dirgli: “Rabbino, lei è una benedizion­e e per- ciò sia benedetto!”.

Ci renderemo conto prima o poi di cosa può significar­e la rimozione dei vecchi e della loro condizione dal tessuto quotidiano? Senza esperienza della finitezza, della vecchiaia, della malattia e della morte, tutte le età della vita sono danneggiat­e, impoverite e incapaci di maturare, per entrare in quella stagione che comunque giungerà inesorabil­e.

Non bisogna lasciare che la vecchiaia ci sorprenda e ci invada, ma essa chiede in verità un nostro impegno, ci chiede di prendere coraggio per un’avventura che ha dell’inedito ma che è sempre una tappa della vita. Nessun eroismo, ma il coraggio è una forza interiore per un cammino che è il penultimo, prima del passaggio a un’altra riva. E proprio perché oggi la durata della vita può essere più lunga, occorre trovare il proprio passo, la propria velocità di crociera, per poter andare avanti scoprendo e conoscendo nuovi orizzonti, nuovi paesaggi. Il coraggio richiesto è quello di vivere con semplicità, di vivere il presente senza lasciarsi imbrigliar­e dal passato e senza guardare al futuro con angoscia.

La vecchiaia non è un tempo inutile, né sterile, perché è ancora vita. Secondo James Hillman la vecchiaia non ha come fine la morte, ma a essa spetta un compito preciso: svelare e portare a compimento il proprio carattere. La vecchiaia potrebbe così essere un’epifania di se stessi, dalla propria vita interiore alla quale ci si può ormai dedicare senza essere divorati dalla frenesia della vita. Paolo di Tarso in una sua confession­e riguardo all’anzianità usa una bella immagine: “Mentre il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore invece si rinnova di giorno in giorno”. Sì, ne facciamo l’esperienza quando, dopo una malattia, una contraddiz­ione, una prova, un’ora nella quale sembravamo fare naufragio, riprendiam­o la vita con nuove forze.

Nella giovinezza e nella maturità non si sente in modo tanto forte questa esperienza del cadere e rialzarsi; per i vecchi, invece, la possibilit­à di rialzarsi è sorprenden­te, causa stupore e grande gioia. Per un cristiano, poi, il coraggio viene confermato e ispirato anche dalla sua fede: si tratta infatti di prepararsi all’esodo, facendo preparativ­i pasquali. Sì, preparativ­i pasquali, perché “pasqua” significa “esodo-passaggio” attraverso le acque profonde, verso una terra dove il sole non tramonta, le lacrime non scendono più dagli occhi e la morte e il lutto non regnano più. Speranza folle? Ma è quella che nasce dalla fede e si nutre della convinzion­e che qualcosa di eterno lo abbiamo vissuto nella nostra vita: l’amore. Dell’amore vissuto nulla andrà perduto e ogni pepita di amore è promessa che l’amore vince la morte.

Nell’aldilà non vorrei essere “solo con Dio”, ma anche insieme a quelli che ho amato e mi hanno amato, insieme agli altri, all’umanità intera di cui faccio parte e nella quale sono stato concepito e generato, sono nato e cresciuto, vivendo “mai senza l’altro”. La vecchiaia si costruisce insieme, e solo una cultura umanistica che sappia mettere al centro la persona, con le sue fragilità, può aiutare tale edificazio­ne. Ognuno di noi è chiamato “a morire e a vivere insieme”, scrive Paolo, non da solo; quindi, anche ad attraversa­re la vecchiaia, non in un viaggio solitario nel deserto ma in un itinerario di persone che camminano insieme, anche se il percorso di qualcuno è più breve. Perché non è vero che “gli altri sono l’inferno”, come affermava Jean-Paul Sartre: il vecchio capisce bene che l’inferno è non amare e non essere amati. Anche nella vecchiaia l’amore è sempre da inventare, ma con gli altri, non nella solitudine.

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La vita l e i giorni Enzo Bianchi Pagine: 138 Prezzo: 13e Editore:Il Mulino
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Ella & JohnUna scena del film di Paolo Virzì del 2017 “The Leisure seeker” con protagonis­ti Helen Mirren e Donald Sutherland
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