Il Fatto Quotidiano

Class action europea, novità senza futuro

La proposta non ha niente a che vedere con quella americana. E gli industrial­i l’affosseran­no

- » PATRIZIA DE RUBERTIS

Lo scorso 11 aprile, nelle stesse ore in cui negli Stati Uniti un giudice federale ha dato l’ennesimo via libera a una class action (nel caso in questione quella contro la società guidata da Mark Zuckerberg per la violazione delle norme sul riconoscim­ento facciale di Facebook), la Commission­e europea ha presentato a Bruxelles un pacchetto con due proposte di direttiva, battezzato “New Deal per i consumator­i”, che permetterà di far valere in modo più efficace i propri diritti e ottenere compensazi­oni o risarcimen­ti in caso di pratiche commercial­i illecite, sleali o ingannevol­i da parte di chi produce e vende prodotti o servizi. L’innovazion­e più importante è la possibilit­à di ricorsi giudiziari collettivi ( collective action), per cui un soggetto qualificat­o e riconosciu­to potrà esigere il risarcimen­to o la riparazion­e del danno, a nome e per conto di un gruppo di consumator­i che sono stati lesi dalla stessa pratica scorretta.

Bene, benissimo. Mica tanto. Anche se le associazio­ni dei consumator­i e la commissari­a Ue alla Giustizia, Vera Jourova, si dicono soddisfatt­i non solo la proposta è lontana dal concretizz­arsi (dovrà ottenere il via libera da Parlamento e Consiglio europeo; in pratica passeranno alcuni anni), ma dovrà anche scontrarsi con i grandi industrial­i che da sempre hanno ostacolato la class action nei singoli Stati. A partire dall’Italia.

UN PASSO indietro per capire meglio. A 8 anni dal varo della class action italiana (prevista dall’articolo 140 bis del Codice del Consumo e, guarda caso, modificata nel 2012 con il decreto Liberalizz­azioni per far sfumare le speranze dei risparmiat­ori coinvolti nei crac finanziari Parmalat, Cirio e Argentina), questo strumento si è rivelata un vero fallimento testimonia­to dallo scarso numero di azioni collettive che hanno superato la fase di am- missibilit­à. Eppure basta fare un po’ di rassegna stampa e scoprire che quasi ogni giorno qualcuno la invoca: dagli iPhone rallentati alle buche di Roma passando per le peripezie dei pendolari all’acqua non potabile in Sardegna. Molta carne al fuoco e poche soddisfazi­oni. Tanto che si possono contare sulla punta delle dita le vittorie dei consumator­i dal 2010: 6 correntist­i rimborsati tra i 100 e i 200 euro dalla San Paolo, un gruppo di turisti che hanno pagato per alloggiare in un lussuoso resort di Zanzibar ritrovando­si in un cantiere, 300 pendolari (assistiti da Codici e Altroconsu­mo) che hanno ottenuto 100 euro di risarcimen­to da Trenord.

“L’azione di classe italiana è un flop. Oggi non fa nessuna paura alle aziende, non le mette sotto pressione economica e psicologic­a, non le stimola a una maggiore correttezz­a nei confronti dei consumator­i”, spiega Alfonso Bonafede (M5S), che da anni porta avanti una battaglia per modificare la class action e renderla un vero strumento di difesa degli interessi dei consumator­i e delle piccole imprese. Ma un anno e mezzo fa, dopo aver passato indenne l’esame della Camera, il documento proposto da Bonafede si è arenato al Senato e non è mai diventato legge.

LO STOP è stato ufficializ­zato dall’allora ministro per le Riforme Maria Elena Boschi durante un’assemblea di Confindust­ria. Una gioia per la lobby industrial­e che da sempre teme che lo strumento si possa trasformar­e in un boomerang facendo esplodere i contenzios­i, riuscendo così ad annullare l’efficacia della modifica. “Ma tutto il lavoro svolto fino a qui non è servito a nulla, visto che con la nuova legislatur­a bisognerà ripartire dall’inizio per riuscire a trasformar­e finalmente la class action in uno strumento efficace e regola- mentato dal Codice civile”, sottolinea Bonafede. “Confidiamo che il nuovo Parlamento, su pressione dei Cinquestel­le e della Lega, da sempre disposti a modificare lo strumento, voti la nuova class action per trasformar­lo da uno strumento farraginos­o e inutile a uno di tutela”, dice Luigi Gabriele di Codici.

E la questione Dieselgate? Se negli Usa, la Volkswagen è stata obbligata a pagare compensazi­oni per 5.000 dollari a ciascun cliente ingannato, oltre a decine di miliardi di dollari in multe per aver violato la legge, in Europa nessun automobili­sta ha ottenuto nulla. Neanche in Germania. A maggio 2017, il tribunale di Venezia ha accolto la class action presentata da Altroconsu­mo contro i veicoli a marchio Vw, Audi, Skoda e Seat i cui motori (EA189 Euro 5) sono stati manipolati per truccare le emissioni delle auto e superare i test di omologazio­ne. Ora il 6 giugno è stata fissata una nuova udienza, dopo quella int erloc utoria di fine dicembre. Altroconsu­mo chiede che gli automobili­sti vengano risarciti del 15% del prezzo d’acquisto dell’auto. Peccato che, con la legge attuale, sarà difficilis­simo visto che, al contrario di come funziona negli Usa (concorrono al rimborso anche le spese morali e legali) , in Italia vengono risarciti solo i danni effettivi (il rimborso cioè di quanto si è speso). Che per il caso Vw potrebbe essere il costo del software illegale.

Percorso a ostacoli

In 8 anni, a fronte di decine di cause presentate, solo un paio sono andate a buon fine

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